Palermo e Maredolce ~ Cesare De Seta

Trionfo della Morte, 1450 ca., Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo

Solo fantasmi s’aggirano nel centro storico di questa grande capitale: la gente non ci abita più, tanto che all’imbrunire non s’ode voce umana. Mura a brandelli, intonaci che si sgretolano, stucchi fastosi che cadono a pezzi, chiese sconsacrate e palazzi scoperchiati. 
 

PALERMO

Il centro storico di Palermo è uno spettacolo doppiamente penoso e amaro: penoso perché è difficile trovare una simile condizione di degrado congiunta a una così alta qualità del bene che va scomparendo, sicché il pessimismo della ragione induce a ritenere – mestamente e quanto mestamente! – d’essere giunti a un punto di non ritorno; amaro, perché non so da quanti decenni i pubblici responsabili hanno giurato e spergiurato che si sarebbe fatto l’impossibile per porre rimedio a questo miserando stato di cose. Non si è fatto neppure il possibile e l’indispensabile. 

Attorno al capezzale del malato sono stati chiamati cerusici, speziali e medici, essi si sono industriati con le loro arti e con le loro terapie, si sono consultati, hanno redatto studi. Pile di carte e cartacce si sono accumulate negli anni tanto da intasare un’intera biblioteca: ma, a onor del vero, nulla si è mosso. 

Mura a brandelli, fioriscono i barbacani, gli intonaci si sbrecciano, gli stucchi più fantasiosi che mai si siano visti – come quelli del Serpotta nei suoi oratori – cadono a pezzi: palazzi e chiese scoperchiati si contano a decine; sembra di attraversare una città da day after: qui il «giorno dopo» è già divenuto una realtà. Lo spettacolo è spettrale visto che il centro storico di Palermo si è andato inesorabilmente spopolando: all’imbrunire non s’ode una voce, si vedono soltanto sagome che sgusciano da un vicolo per farsi ingoiare da un androne e scomparire. Sembra di attraversare la scena di un film di Spielberg. 

Il centro storico di Palermo vive una condizione-limite perché è venuta meno la condizione essenziale per la sopravvivenza di un ambiente: non c’è più la gente che lo abita. Per quanto assai poco degna sia la condizione in cui versa il centro storico di Napoli o il borgo medievale di Bari pure essi hanno il vantaggio d’esser popolati. C’è chi sostituisce un vetro infranto alle finestre, c’è chi ripara alla meglio un tetto che fa acqua, un pluviale che perde, un infisso che non chiude, un solaio che non regge. A Palermo questo cuore della città è in balia dell’acqua, del vento, del sole, del vandalo che scassa per il gusto di scassare. È il centro storico un labirinto ove si aggirano i fantasmi nudi e muti del suo passato glorioso: emiri musulmani, sovrani normanni e svevi, viceré spagnoli; signori come i Chiaromonte e gli Sclafani, come Pietro Speciale, Simone Bologna o il marchese di Regalmici sono i convitati di pietra sulla tolda di questa zattera alla deriva. Sono giunto per la prima volta a Palermo poco più di dieci anni fa, sapendo che i miei l’avevano vissuta per lunghi secoli – mettendovi radici -, consapevole soltanto di un’orale e familiare tradizione di fasti trascorsi. Ho visitato il palazzo che ha il nome della mia famiglia: è un fantasma tra i fantasmi. Vi giunsi con queste memorie personali, molte letture e con una guida del Touring. 

Mi sembrò in quel primo incontro di ritrovare un ambiente da sempre conosciuto: strade e piazze, palazzi e chiese, e quei rari giardini di intensi aromi ornati di altissime palme, erano parte della mia memoria genetica. 

L’amai subito questa città impressa dentro di me senza che ne avessi consapevolezza e quando vi ritorno ho sempre questa netta sensazione. 

Nulla è rimasto in Sicilia della bimillenaria dominazione araba: meno che mai a Palermo, eppure la Palermo che predilesse il grande Michele Amari fu per eccellenza «la città», meritò infatti l’appellativo di Al Madinah: privilegio che non ebbe altra città cristiana parte dell’impero dell’Islam. Sin dai primi decenni della dominazione araba la residenza del governatore della Sicilia sorse sull’altura più alta del Cassaro, nello stesso luogo in cui s’erge quel che fu poi detto palazzo dei Normanni. L’assoluta povertà dei reperti archeologici e dei monumenti di questa civiltà non consente una passeggiata né un itinerario privilegiato: è come se su due secoli di storia fosse piovuta una notte buia che solo la luce di talune descrizioni riesce a rendere meno fonda. 

L’unico monumento che rimane della civiltà islamica in Sicilia sono i resti dei bagni di Cefalà Diana ben lontani da Palermo. Bisogna dunque affidarsi alla propria immaginazione e ad alcuni testi per farsi un’idea della città araba; tra questi testi soltanto due sono contemporanei a quel tempo, altre descrizioni – pur di viaggiatori arabi – sono infatti più tarde e risalgono all’età normanna. 

Il viaggiatore iracheno Ibn Hawqal quando giunse a Palermo nel terzo decennio del X secolo rimase sbalordito dal numero delle moschee: nei cinque quartieri in cui era divisa la città ne contò circa trecento, solo Cordova – dice – ne contava di più. Ibn Hawqal quasi per convincere gli increduli vuole essere preciso e specifica che esse «sono fornite d’ogni cosa, con tetti, mura e porte». Sono degli edifici, dunque, non dei semplici recinti per la preghiera all’aperto. La più sontuosa di queste moschee, la vera cattedrale della città araba, poteva ospitare fino a settemila fedeli disposti in trentasei file. Di questa moschea e delle altre che erano distribuite per i diversi quartieri della città non v’è traccia. 

Ma non c’è nulla che si trovi senza averla cercata e la ricerca archeologica non ha fatto grandi sforzi in questa direzione, né sarebbe facile per il vero. Oltre che di moschee gli arabi furono grandi costruttori di acquedotti, sicché i bagni erano distribuiti per tutta la città. 

Ibn Gubayr, viaggiatore musulmano nativo di Valencia, sul finire dell’XI secolo – quasi duecento anni dopo Hawqal, dunque – giunse a Palermo dopo un avventuroso viaggio durato due anni che l’aveva condotto alla Mecca. Alla fine del dicembre del 1184 la città gli appare «antica e bella, splendida e graziosa, sta alla posta con sembiante seduttore, insuperbisce tra piazze e pianure che un giardino, larghe ha le vie e le strade, ti abbaglia la vista con la rara beltà del suo aspetto […] un fiume d’acqua perenne l’attraversa, ai fianchi scaturiscono quattro sorgenti». 

Il castello, il Qasar, eretto come residenza estiva per l’emiro Giafar, è meglio noto come Favara; oggi è uno spettro, un rudere cespuglioso ridotto a un immondezzaio e, se possibile, ancora peggio di un immondezzaio. Ma di questo, distesamente dirò più avanti. 

Era circondato il Qasar su tre lati da un lago artificiale e immerso in un lussureggiante giardino. 

I giardini di Palermo, con i loro profumi di gelsomino, arancio e bergamotto erano parte integrante di questa città: ancora nell’Ottocento i viaggiatori ne sentivano i profumi: a noi tocca l’olezzo dei gas al benzopirene misto a piombo. L’immaginazione non consente di convertire questo afrore nell’intenso incanto di quella verzura. 

Insiste Gubayr nel cogliere le analogie che corrono tra Palermo e Cordova. Entrambe sono costruite con pietra da taglio, entrambe hanno un impianto urbano simile: Palermo «ha la parte antica detta Al-Qasar, Al Qadim [castello Antico, cassaro Vecchio] la quale si trova nel centro della città moderna, e Cordova – Dio la protegga – è disposta alla stessa maniera. In questo cassaro Vecchio si trovano dei palazzi che sembrano castella eccelse, con belvederi dal largo orizzonte, sì che gli occhi restano abbagliati a tanto splendore». 

Nell’XI secolo Palermo raggiunse un tale sviluppo urbano che fino alla metà del XVIII secolo la città non avrà bisogno d’espandersi oltre quel perimetro: una condizione, peraltro, comune ad altri grandi centri dell’Islam come Cordova, Bagdad, Damasco. I fondachi, i mercati, i bagni, le moschee e i giardini erano l’ossatura della città. 

Ma erano pur tanti i palazzi e i quartieri residenziali: nel 1922-23 fu demolito il Castellammare che si affacciava sulla cala sul fronte nordoccidentale. Questo palazzo-fortezza, ricostruito in età normanna, aveva al suo interno una moschea ed è questo più di un indizio per dire che la sua fondazione è d’origine araba. I maggiori monumenti musulmani sopravvissero certamente alla dominazione normanna e la città s’arricchì di nuovi palazzi e di sontuose chiese. 

Gubayr nella sua cronaca descrive con stupefatta ammirazione la chiesa dell’Ammiraglio: essa risale al tempo di Ruggero II e si deve al mecenatismo di Giorgio di Antiochia, un greco divenuto ammiraglio del giovane regno, così potente e ricco da farsi committente di un tempio sontuoso e di un imponente ponte sull’Oreto. 

Se chiedete per strada dov’è la chiesa dell’Ammiraglio è difficile che ve la sappiano indicare: ma se chiedete dov’è la Martorana tutti ve la indicano. Tale è il nome che assunse infatti il tempio in età aragonese. Così la descrive Gubayr: «Le sue pareti interne sono tutte dorate, hanno lastre di marmo a colori, di cui mai si sono vedute le uguali, tutte lavorate in oro, contornate di fogliame in mosaico verde. Dall’alto si aprono finestre in bel- l’ordine, con vetri dorati che accecano la vista col bagliore dei loro raggi e inducono negli animi una suggestione da cui Dio ci tenga lontani». 

Gubayr sembra temere le arti persuasive della Chiesa di Roma, si ritrae dinanzi all’incanto di quell’ambiente che quasi considera una minaccia per ogni pio seguace di Maometto. La Martorana conserva ancora oggi larga parte del suo antico splendore. Prosegue Gubayr: la chiesa «ha un campanile sorretto da colonne di marmo di vario colore, esso ha piani soprapposti gli uni agli altri, tutti a colonne, onde è chiamato il campanile delle colonne. È questa una delle costruzioni più meravigliose che veder si possa. Dio col suo favore e con l’opera sua generosa la nobiliti presto con la chiamata del Muezzin». Insiste nella sua ortodossia il viaggiatore musulmano, ma non è reticente nel riconoscere i meriti del sovrano normanno. 

E infatti Palermo a quel tempo fu tra le più fiorenti metropoli del Mediterraneo, raggiunse con i suoi commerci una prosperità ineguagliata, toccò una popolazione di centomila abitanti che la pose tra le più popolose città del mondo. Visse così la sua età dell’oro. Era scampata infatti alla dominazione barbarica, s’era defilata dalla guerra greco-gotica, era divenuta parte dell’impero islamico e passò poi nelle mani di uomini del nord che seppero suggere – come api – il nettare che arabi avevano distribuito. Senza badare alla fede, alle origini etniche, ai costumi e alle tradizioni, gli eredi di Roberto il Guiscardo costruirono il loro Stato con straordinaria intelligenza politica e con pari magnanimità. 

Il carattere cosmopolita della città araba fu ulteriormente esaltato e la nuova ristrutturazione è segnata da una consapevole continuità stilistica e formale. I conquistatori seppero amare questa loro capitale e ne furono conquistati: il geografo arabo Al-Idrisi con il libro detto di Ruggero (1114), e Ugo Falcando, storiografo della corte normanna, ce ne hanno lasciato descrizioni memorabili. 

In tanto sfacelo molte di queste testimonianze sono sopravvissute, altre hanno subito consistenti rimaneggiamenti, altre ancora sono andate distrutte. 

Quando la comunità araba sarà costretta ad abbandonare Palermo, per emigrare in massa sulle coste dell’Africa settentrionale, sarà un triste giorno: neppure il grande Federico II, il sultano cristianizzato, riuscì a darle la gloria che essa aveva avuto, tanto che l’opera maggiore della dominazione sveva deve considerarsi la stessa tomba dell’imperatore nella cattedrale di Palermo. 

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Benjamin Schlick, Palermo, veduta del Santuario di Santa Rosalia dalla Porta Nuova, 1833

MAREDOLCE

La residenza s’ergeva nel cuore del parco reale normanno era immersa tra palme, papiri e alberi di aranci ed era circondata da un lago d’acqua dolce. L’aveva fondata l’emiro Giafar sul finire dell’anno Mille. Tra un intrico di casupole, casacce, tettoie di plastica si può scorgere ancora quest’idea simbolica della civiltà arabo-normanna

Nella campagna meridionale di Palermo, a circa due miglia dal nocciolo più antico di questa antichissima città, s’estendeva il parco reale normanno. Era questo parco certamente una eredità araba che i sovrani venuti dal nord seppero far prosperare: infatti il più antico nome arabo «Gennet-el-ardhy» vuoi dire proprio «Paradiso della terra». La civiltà musulmana aveva il culto dei giardini e dunque fu grande maestra nell’uso delle acque: in questo erede diretta della sapienza idraulica e ingegneresca dei romani. Ma i musulmani nutrirono un amore diverso per la natura e realizzarono in Sicilia, et pour cause, nella Conca d’Oro un sistema idraulico come mai s’era visto e mai si vedrà. I sovrani normanni disseminarono l’immenso giardino della Conca di castelli, dimore, solatia che erano immersi tra laghi e fontane, rivi e canali, tra palmeti, papireti e agrumeti. 

Il parco di Gennet-el-ardhy si estendeva dal mare fino alle pendici dei monti che circondano la conca di Palermo – città tutta porto, come dice il nome – distendendosi per la vastissima area attraversata dal corso dell’Oreto, dai suoi affluenti e da altri rami torrentizi che erano stati sapientemente irreggimentati; sicché la severa regola della distribuzione dell’acqua consentiva che prosperasse una folta vegetazione e v’albergasse una ricca fauna. 

Qui sorse, in questo immenso giardino, il castello di Giafar, che prende il nome dall’emiro (997-1019) che lo fondò: tali almeno sono le indicazioni che ci danno coeve fonti arabe. Il medesimo castello prese poi il nome di «Fawarah» che significa sorgente d’acqua: infatti lì vicino ci sono le sorgenti che sgorgano dalle pendici del vicino monte Grifone, favoloso animale dal corpo di leone e dalla testa d’aquila. Oggi c’è un relitto di mura che s’indica ancora come Favara: ma conviene invece dargli il nome più proprio, e più tardo, di Maredolce: sia perché lo si trova citato fin da quei tempi lontani, sia perché il toponimo Favara nella sua genericità indica una vasta area, mentre Maredolce è riferibile solo al grande lago d’acqua dolce che circondava il castello. Fu Ruggero II a riedificare il castello di Maredolce e i suoi successori Guglielmo I e Guglielmo II continuarono l’opera in un tempo che va dal 1130 al 1189. Nel nucleo più antico del parco reale, che era certamente d’origine araba, i normanni eressero, e concentrarono, alcune delle opere più degne di questa civiltà: la Zisa, la Cuba Soprana e la Cuba Sottana, la Cubula, i palazzi dello Scibene e di Monreale. 

Erano parte, queste architetture, di un sincretismo stilistico di raro vigore ove la decorazione era tutt’uno con la verzura che circondava queste fabbriche; esse sorgevano infatti dalla natura in cui erano immerse. Un sodalizio di cui la civiltà arabo-normanna ha saputo lasciarci segni ineguagliabili. Non c’è viaggiatore che non ne resti incantato, che non si stupisca dinanzi al fascino di tante meraviglie. 

Michele Amari, sostenne a ragion veduta (e questo conferma, ovviamente, la preesistenza di un giardino arabo), che l’impianto originario del castello di Maredolce fosse dovuto, sul finire del X secolo, all’emiro kalbita Diafar. Ai normanni si deve il proseguimento dei lavori, la trasformazione e l’ampliamento del complesso con l’aggiunta della chiesetta e del lago artificiale che circondava su tre lati il palazzo. Ho usato più volte indifferentemente il termine di castello e di palazzo: e in effetti dové essere Maredolce l’uno e l’altro. Enrico VI di Hohenstaufen ne rimase ammirato quando vi risiedé durante la guerra con gli ultimi Altavilla, suo figlio Federico II vi trascorse parte della sua giovinezza: forse in quel clima attinse tutto l’amore che sempre serbò per la civiltà musulmana. 

Nel 1228 il castello e tutte le pertinenze furono cedute da Federico II ai Cavalieri Teutonici della Magione che a loro volta lo cedettero agli abati commendatari e nel Trecento passò definitivamente in mano a privati. Inizia la deriva di questo complesso la cui architettura principale era circondata da una vasta corte porticata di cui restano labili brandelli. Di questo nucleo più antico, che aveva una forma a L, non c’è alcuna traccia: rimane in piedi la chiesetta di fondazione normanna a pianta rettangolare, con un piccolo transetto interno con tre absidi e nicchia contenute entro una massa muraria rettangolare. Al centro della cappella si leva una singolare cupola di sapore tardo-bizantina più che araba: la calotta è segnata da una cornicetta a mensola, come si può vedere nell’esterno di Altofonte. 

Attorno agli sbocconcellati ruderi dell’edificio si individua con chiarezza il perimetro del grande lago artificiale che contiene nel mezzo un’isoletta. In una stampa dei primi decenni dell’Ottocento si ha un’immagine complessiva dell’esterno: sul lato più in vista si contano al piano d’ingresso due grandi portali con arco acuto; dal piano superiore alte finestre in coppia a cui succedono finestre più basse e strette che sovrastano i due portali. Poco distante dal castello erano visibili, sino a metà Ottocento, i bagni: una piccola costruzione adibita all’incanalamento delle acque termali e dei vapori che venivano utilizzati a fini terapeutici e curativi. Di qui forse l’origine romana delle attrezzature che assunsero poi il nome di «lacanico» e di «stufa». 

Il castello di Maredolce era dunque il baricentro di un complesso d’attrezzature che s’ergeva possente nell’immenso parco reale: all’intrico degli alberi, dei papiri e delle palme s’è sostituito oggi un intrico di casupole, palazzacci, costruzioni abusive o legittime tutte miserabilmente votate a distruggere quest’idea simbolica della civiltà arabo-normanna, o tout court sicula. Anche il castello è stato attaccato nel tempo da inesausti guastatori che si son fatti la catapecchia, la casetta, l’antro poverissimo: aprendo, demolendo, ostruendo con la probità di chi deve sopravvivere. Ma se alle venti famiglie che attualmente vivono in questo reperto archeologico non so dare nessuna colpa, con malanimo penso a quanti nel tempo hanno lasciato che questo monumento deperisse in modo tanto miserevole. 

Bisogna dire che da secoli dura la sistematica distruzione di Maredolce e dell’ambiente di cui era parte: già nel Cinquecento il lago era stato prosciugato e il fossato utilizzato a mo’ di ippodromo per la corsa dei cavalli. Oggi un tratto è addirittura attraversato dall’autostrada Palermo-Catania: infrastruttura, come s’ama dire in termine ingegneresco, che non smentisce così la sua triste nomea. Ma con l’autostrada si può vedere una recentissima villa a tre piani e nulla più resta dell’antica «stufa»; gli archi dai quali scaturiva la fonte di Maredolce sono solo dei mattoni fracassati ridotti a ricettacolo d’immondizie d’ogni genere e a vera e propria discarica. Il bacino del lago è una specie di campagna coltivata dove affiorano di tanto in tanto reperti archeologici che vengono accortamente fatti scomparire: qui, infatti, nel lago, si tenevano naumachie e chi sa che lì sotto non ci sia sepolta nel fango qualche antica imbarcazione normanna. Ma meglio è non saperlo, tanto nessuno se ne dà per inteso. 

E mi par giusto concludere questa mesta visita con la memoria più lucente di questo trascorso paradiso: al centro del lago artificiale sorgeva un’isoletta e così la descrisse in una kasida, piccola composizione poetica del tempo dei Guglielmi, il poeta trapanese Abd-er-Rahmàn: «Favara da due mari, tu contieni ogni brama di vita dilettosa / e di magnifica apparenza. / Le tue acque si diramano in nove ruscelli: oh bello il corso delle acque così spartito! / Là dove si congiungono i due mari, là s’affollano le delizie / e sul canal maggiore s’accampa l’ardente desiderio. / Oh quanto è bello il lago delle due palme e la [pen]isola nella quale s’estolle il gran palagio!» 

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Il testo è tratto da:

Cesare De Seta, Viaggi controcorrente ; Torino : Nino Aragno, 2007 ; pp. 219-231

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