Sotto il nido delle rondini (5)

 

Xavier Rey, L'echelle, 2009
Xavier Rey, L’echelle, Lac de Sanguinet, France, 2009

 

aprile

 

Il proverbio popolare sulla pioggia che a Pasqua compensa il sole di Natale è coniugato in varie forme a partire dalla semplice matrice «Natale al sole, Pasqua al fuoco». Spesso Natale è sostituito con Carnevale o Ceppo, mentre la Pasqua rimane sempre il compimento, la misura colma o mancata di una verifica, riprova di un ciclo che si autoriproduce e proiezione positiva verso il tempo della speranza dove l’aspetto religioso, con il peso della storia e dei suoi personaggi, rimane sullo sfondo a favore di un pensiero magico dominato dalla perfezione della Natura.
L’anziano suocero, che della saggezza del padre è certo di avere sinora avuto prova di infallibilità predittiva, recita da par suo «Natale al balcone, Pasqua al tizzone». Se nel bilanciamento del buono e del cattivo riconosco la sua sostanziale concezione di un principio dispensatore di giustizia riparatrice, con cui chiude con autorità divertita la distratta conversazione prima di pranzo, io sono catturato dall’immagine del balcone così discretamente signorile rispetto a quel al sole universale e al tizzone ostinato e resistente al nuovo.


 

 

Ogni ora ha la sua preghiera, ogni stagione la sua poesia, ogni anno il suo libro, ogni amore la sua canzone e ogni cielo il suo colore, ma è raro che in quell’attimo l’altro accanto a noi senta le medesime cose. La cosa sfugge, perde il suo contorno visivo, il suo suono profondo; quando si è fortunati incontriamo due occhi che ci guardano, interrogativi e curiosi.
Posso così ascoltare una musica piacevole, come oggi faccio con Le tue ossa nell’altitudine rubata al figlio, ma, se non ho un amore a cui dedicare nel cuore lo struggimento della nuova melodia, rimane un dono muto e presto dimenticato. Posso leggere una poesia che apre al mondo, come faccio ora con L’apparenza non inganna di Parronchi, ma se il tempo della illuminazione è già scaduto, diviene sapore amaro di un’occasione non colta. Il mistero d’altronde non sta in ciò che il verso o il canto esprime né nella condivisione tra due persone di una passeggera medesima visione, ma nell’immagine che precede la parola, in quella figura che ancora non è e che si fa cenno, tentativo di definizione.

Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa. (Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura)

 

 

Vedo in televisione una serie di falchi che vivono in Puglia. Fra questi c’è il «mio» Lanario con il suo petto color giallo crema ornato da gocce scure e gli occhi sfavillanti che sprizzano energia e curiosità predatoria. A un tratto è sembrato guardarmi con complicità. In disparte, a malapena il piccolo Grillaio (Falco naumanni) sosteneva il confronto fra questi Principi del Cielo, lui, pilota solitario contro gli eserciti delle locuste.

 

 

La festività inutile ci getta in un torpore vacuo e quasi ci manca la fatica del lavoro e la trasandatezza del vestire.
Giunge P. con l’amica rumena, cui un grande fazzoletto fascia la testa alla maniera ortodossa. Non so da dove arrivi questa sorpresa con la sua figura magra e senza seno. Il volto ha i caratteri di un certo Oriente, gli zigomi alti, rotondi e pronunciati, gli occhi pungenti e mobili, una delicatezza estrema e una premura un po’ affettata. Tanto è “coperta” da vestiti che nascondono, quanto forte è il desiderio di vederla nuda, armata delle sue sole ossa. È la sua raffinatezza a chiedere di essere mostrata, come un cristallo limpido che non sopporta il tessuto. Rimango in silenzio e in disparte, fin quando decido di uscire con il cane. Allora, nel salutarla, gli occhi cadono sui piedi perfetti che nudi -loro sì – calpestano il tappeto.

 

Dopo il taglio della legna torno a casa con le ossa anchilosate. Disteso sul divano mi addormento mentre la televisione rimasta accesa trasmette un documentario naturalistico. Al risveglio si sta parlando dell’acqua come elemento primario della vita sulla terra. L’effetto è assai straniante perché ho la sensazione di essere rimasto nel sogno e di stare combattendo con pacificati scienziati russi e giapponesi che parlano della memoria che l’acqua porterebbe dentro di sé. Studi sulla struttura molecolare dell’acqua posta in un ambiente sonoro dimostrano come la sua intima forma si modella sul messaggio musicale, cambiando a seconda si esegua Bach, Mozart, Beethoven o il rock. All’acqua si può parlare e allora assorbirà l’intenzione positiva o maledicente, restituendo a sua volta vita o energia inquinata. Lo stesso atto di preghiera, di qualsiasi religione, rende l’acqua pura, pacificata. Uno studioso ebreo afferma che il caso e le coincidenze, come, ad esempio, lo fu il ritorno della pioggia a seguito di una vasta azione di preghiera sotto il Muro del Pianto, non spiegano niente di più di quanto può fare la cieca fede in un ordine cosmico.

 

Tutto si muove sulla regolazione di un ciclo. Fino ad un mese fa guardavo la terra e un’ansia velenosa mi faceva dubitare che tutto quel manto di vite silenti potesse giungere all’esplosione primaverile. Oggi, mentre raccolgo la terra del cipresso, dell’abete, del querciolo e del leccio per comporre il letto dei vasi di fiori, percepisco come il miracolo della rigenerazione della natura si fondi su condizioni particolari e in un ristretto arco di tempo. Il ciclo stagionale prolunga la vita agonica degli elementi impedendo la loro caotica predominanza. L’idea dell’Eden («Possa un’eterna luce fermare quest’alito!») e della struggente Attesa («… al di là della languida Carpo e della vigorosa Tallo / c’è solo il ghiaccio, / solo il fuoco di Auxo») corrisponde alla volontà timorosa di respingere la morte.

Parronchi, con il suo sorprendente venire dalla profondità dello spirito, mi conferma.

La quiete? Mai! / L’instabile, / il fuggitivo, il labile, / quello che non ritorna. / Ciò che sparisce dietro il monte, il fondo / che non si vede, l’occhio che non dorme … // Eppure in questo andare a volte prende / un bisogno d’immutabilità. / Qualcosa a cui s’afferri, come a un’aerea città, / la paura di scivolare, scendere … (da Replay)

In questi giorni temevo di non ricordare il metronomo lamento del Codirosso e l’attesa di lui tradiva un desiderio di fissità.

 

 

Giornata triste condizionata da una meschina storia che solo il paese piccolo può generare. Grande è il nervosismo per il carico di negatività che emana. L’intuizione mi porta a essere contro l’opinione di molti e la conferma tragicomica che giunge nella serata crea ulteriore turbamento.

Una donna, isolata nel paese, accusa i bambini, e tra questi mia figlia, di profanare il cimitero. La maldicenza è così stupida e infondata che scatena la reazione indignata dei genitori. Come in un romanzo di appendice si organizza subito una mobilitazione femminile per denunciare la calunniatrice al locale comando dei carabinieri. Il mio idealismo porta ad oppormi al desiderio di punire, di segregare e di non interrogare il “diverso”. In tutto questo l’omertà maschile è così evidente che grida un’altra verità. La donna infatti è conosciuta come disponibile a incontri con vari uomini: tanto basta per considerarla non credibile.

La sera veniamo a sapere che in realtà il cimitero è stato usato da lei per funerei appuntamenti erotici. Che tristezza! La donna denunciava tentativi di furti e profanazione di tombe perché voleva accusare se stessa di fronte ai suoi forti sensi di colpa.
 

Quando vado dai carabinieri ricevo una sensazione di ottusità e di sospetto, ma anche gentilezza e adulazione. Alla fine rimane sempre un senso di complicità delatoria e di illegalità inconfessata, come se questi luoghi dovessero attaccare addosso male e colpa. Il disagio resta e ho bisogno di purificarmi dentro dal pensiero ossessivo della maldicenza, dal compattarsi del gruppo contro una persona, dalla sessualità vissuta come dinamitardo sociale.

 

 

A poco a poco ho dovuto rendermi conto che la poesia era la costante segreta di ogni mia attività. E in quanto segreta, in quanto nascosta, confinata nei momenti di ozio, negli intervalli, nelle pause, ma perciò stesso presente ovunque. Dal sonno, dall’abitudine, io tento di riscattarmi in una visione nuova delle cose, in un impegno nuovo nelle parole. Disperso in direzioni diverse io qui mi ritrovo a numerare come in un rosario i minuti del tempo che passa, che fa groppo innumerevole. Finché un colpo di vento improvvisamente lo spazza, lasciandomi nudo e allo scoperto di fronte ai miei simili. (da Quaderno in ombra, 79)

Come non sentirsi rappresentati in queste parole, nel segreto intimo che ci portiamo addosso, in attesa e ignari di uscire fuori dal cono d’ombra dove eravamo posati?

 

Ho scelto i versi di René Char, Edoardo Cacciatore e Paolo Bertolani per segnalare i nidi delle rondini, coppe fatte della pasta della terra, al di sotto dei quali si accumulano mucchi di escrementi bianchi e neri che lordano il pavimento dell’androne fuori casa. Colorerò di rosa, di bianco e verde bottiglia alcune tavole di legno fissate sotto le travi perché raccolgano le copiose fatte e scriverò sotto le parole dei poeti su questi uccelli gentili e delicati.

Per il rosa antico, ho scelto René Char:

Rondine, massaia affaccendata / sulla punta delle erbe, / frugare la rosa sarebbe, lo sai, / delle vanità la più vana.

Nel bianco, andrà Paolo Bertolani:

… O amore di rondinella, / non sbagli una volta a ritornare …

Infine, al verde bottiglia si addice il grande attacco di Edoardo Cacciatore:

Rondine rendimi eguale al tuo giugno …

Ho tenuto anche un’alternativa da Osip Mandel’štam, per l’idea del loro viaggio senza sosta giunto a noi al suo termine:

… E le rondini in volo per l’Egitto / quattro giorni restarono a mezz’aria / seguendo rotte marini, tragitti / d’acqua, ma senza attingervi con l’ala.

Così la domenica passa tra queste minuzie e l’ozio, mentre è tornato un inaspettato freddo con pioggia: il querciolo attende il ferro deciso della roncola e il debole tagete reclama ben altro calore da questo lento aprile.

 

 

Consonanze del fare quotidiano e delle letture serali. La domenica è una festa preparare il pranzo per la famiglia e la mamma anziana, altrimenti sola nella propria casa. Cucinare diviene un lavoro donato senza sudore e ansia, come un’arte tentata senza pretese.

C’è chi / quando è contento / lava anche tutti i piatti / e ci sta tutta la sera / girato sulla schiena / sul lavello / perché un sorso di felicità / muove tutto il corpo / e ognuno balla come sa. (Francesca Serragnoli)

Di questa semplice poesia mi piace l’inutile “anche”, mi piace la figura che si sottrae allo sguardo, mi piace “un sorso” e la danza operosa di chi vive del poco che le è dato.

 

 

La lettura di Hamsun non è stata spedita e travolgente. Incanta la fragilità della sua scrittura cristallina e quel ritmo senza un bersaglio dove posarsi ci distrae. Questo straniamento sembra trovare figura nel personaggio nomade di Martin Enevoldsen che non appena materializza la propria storia scompare nella vastità delle foreste norvegesi. È un libro che rifiuta ad ogni riga di divenire libro, un diario che non descrive l’anima ormai stanca, ma solo lo sguardo su ciò che si ostina a rimanere vivo. Non si rimane turbati dalle “ragioni” o dalle aberrazioni delle idiozie pangermaniche hamsuniane, quanto da quell’incedere verso il nulla simile al totale bianco della neve che ovunque affonda.

 

 

«Siamo tutti in viaggio verso un paese che di sicuro raggiungeremo. Fretta non ne abbiamo, e ci fermiamo a raccogliere le casualità che ci capita di trovare per la strada. Solo gli stolti ridono in faccia al cielo e battezzano quelle casualità con nomi altisonanti. Sono più resistenti di noi e non possiamo evitarli.» (Knut Hamsun, Per i sentieri dove cresce l’erba)