Pierre Jean Jouve ~ Poesie

Pierre Jean Jouve ritratto da F. Masserel

 

Tutto è stato abbandonato, ma nulla è nell’abbandono, ecco il cimitero di un cimitero, dove formicolano il silenzio, le bestie invisibili, l’umida traspirazione della terra, lo sdegno eterno.

 

 

LE BELLE GIORNATE 

In queste belle giornate, la bruma azzurra ovunque ritorna al sogno originario, quando la grazia suprema impregnava l’universo di innocenza, e gli alberi al loro culmine finalmente gonfi di foglie multicolori, immergendosi nel cielo troppo dolce per essere azzurro, sembrano separati per sempre dalle forme periture. Un pittore, dalla pennellata energica e profonda, ha posto quei gruppi di querce, tassi solitari, ippocastani a grappoli, platani dal virile tormento, nell’ultima delle belle giornate e li conserva in vaste linee, con margini inteneriti; il sole lieve accarezza i seni dello spazio moltiplicato, dove anche la città definitivamente allontanata non potrebbe sembrare cattiva; tutta la presenza di quel minuto è segnata dall’eternità. E all’interno di una stanza di identica pittura, una ragazza accende il primo fuoco, mentre la sua gamba apre audacemente il vestito.

 

 

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CIMITERO D’UN CIMITERO 

Io so di uno strano luogo, proprio vicino alle piste, ai cavalli, ai fantini e alle dame eleganti, un luogo chiuso, segreto, come la memoria stessa; un traliccio lo separa dai ciuffi di pini e di minuti arbusti, e dietro il traliccio dapprima si vede del ferro: contorto, spostato e rotto, è una vecchia tomba. Alberi infelici, cresciuti dal cuore, giustificano subito un tale groviglio di ferro. Qui vi è una pietra spaccata, sulla quale dovevano esserci delle lettere; là una famiglia di rovi; più oltre un piccolo monumento conservato che mostra, con grandi iniziali, sotto il frontone, il bellissimo nome di una donna. Altrove la confusione si perde. Tutto è stato abbandonato, ma nulla è nell’abbandono, ecco il cimitero di un cimitero, dove formicolano il silenzio, le bestie invisibili, l’umida traspirazione della terra, lo sdegno eterno. Tutta la rovina, attorno al solo Nome di quella donna – mentre migliaia di Scommettitori domenicali, innumerevoli dame eleganti, e fantini di seta sono riuniti per la festa dei cavalli, li potremmo scorgere forse, mettendoci sulla soglia del monumento di quella donna.

ALLA PIETRA VERDE 

Come un’ala d’aquila posata, materia minerale delle acque, con gneiss o tracce di neve, oh silenziosa, oh pesante pietra verniciata da un antico fuoco, dì il tuo segreto a me che soffro; dimmi la via per la fuga verso il silenzio delle pietre, dimmi la serenità verde dei laghi a lungo pietrificati, e quel profondo color verde e quel peso, fanne mia guarigione. Dicono il tuo nome serpentina. Oh felicemente invariabile, impenetrabile e senza carità, inumana! Dammi i tuoi soli rinchiusi, la tua atmosfera d’origine, tagliente e vuota, i tuoi ruscellamenti di silenzio che forniscono fiumi dal corso desolante. Oh straziante moltitudine di corazze, di vortici, di vernici amare, e tutti gli strati stretti nella formidabile compressione obliqua! Dammi il tuo dramma immobilizzato per guarirmi dal dolore del desiderio; perché il mio pensiero è prigioniero degli uomini, ed io con lui.

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ESTREMO DELLA MUSICA 

Gustav Mahler. IX Sinfonia, IV Movimento. 

È una melodia dapprima semplice e di linea distesa, quasi troppo pura nella sua malinconia tonale ardentemente confidenziale, che presto per l’incrocio profondo dei suoi elementi, le sovrapposizioni senza fine, lo spirito dei timbri e lo spessore divenuto poco a poco prodigioso, raggiunge un’enormità senza limite nella profusione, nel dono, nell’amore, nella gravità del gioco. Un mondo estremo si svolge sempre più ardente, ma sempre più strappato ad un suono che conquista la nuova lingua, spessore inestricabile di foresta di stelle o sottile limpidezza delle sfere. Questa calma forma di sovrabbondanza dalle estasi supplicanti, questa elaborazione suprema della Forza in miriadi di voleri e di lacrime, è ancora la melodia originaria, ma trasposta ora alla scala dell’essere universale, fino ad infrangersi più volte sugli strapiombi del destino. Molto più tardi, quando l’opera è interiormente finita, riprende l’idea, quella originaria, che lentamente, lentamente sotto il peso delle sue ricchezze, si disfa, cade in frammenti lontani, opera la propria distruzione, e lentamente, molto lentamente muore. 

Secondo le parole della moglie dell’artista, «egli telefonava a Dio».

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DESCRIZIONE 

Il corpo aveva una finezza di liana e allo stesso tempo la robustezza di una torre, solidamente impiantato sulle gambe un po’ disgiunte mentre, da una leggerissima curvatura delle cosce, risaltava il bacino centrale. Le anche esili, quasi dritte, rese in questo modo più sensibili, l’addome messo bene in evidenza con l’ombelico incavato, una piega orizzontale che segnava la base del torso, mentre questo portava due piccoli seni sporgenti e gravi, di una mollezza giusta, con i capezzoli brunastri su larghe areole. Bastava una mano a coprire quei seni appena pesanti, giovanili e pieni, ma essi resistevano col loro voluttuoso spessore. Scarsa la lanugine sotto le ascelle; affinché il principale oggetto di contemplazione, quando fosse stata nuda, diventasse il pelo del pube, violento, crespo, d’un bruno scuro e largamente triangolare. 

Sotto la capigliatura nera, un vero casco, essa aveva due occhi di peso simile, occupati da uno sguardo penetrante e triste, e un naso diritto con una punta piuttosto dura all’estremità come nelle figure dei vasi greci. Dai lunghi piedi, modellati e slanciati, con le unghie dipinte d’oro, fino in fondo alle reni come una valle dopo agili montagne, e dalla cintura vagamente a forma di urna fino alle spalle piatte: aveva la certezza di essere un corpo magro come conviene all’indecenza, e senza difetto, e offriva volentieri alla vista la bianchezza sibillina della pelle con il cespuglio pronunciato. Il minimo movimento faceva sentire sotto il contorno una familiarità barbara.

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CARNET 

È stato trovato un taccuino, contenente tutti quei nomi di donna, con gli indirizzi o senza; una baraonda di nomi: delle prostitute, dite voi, e “indirizzi utili”. Ma tutto quel taccuino, proprio per il cumulo dei nomi, non può corrispondere all’esperienza. Un uomo impegnato in una grande opera non è potuto entrare in così tante donne. Tutto quel taccuino contiene le figure che rappresentano una sola Figura, davanti alla quale il poeta è Supplice. È un’aspirazione ad unirsi con la donna comune e col mondo delle donne, e in questo senso il taccuino si perde in una preghiera. Tutti i nomi adorati sotto la veste della nudità intercedono per il poeta.

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NOTIZIA PER PIERRE JEAN JOUVE 

di Nadia Gabi 

Jouve aveva 73 anni. Dopo venticinque anni di poesia, pubblicava la raccolta di Proses (Mercure de France, 1960): una sessantina circa di pezzi dallo stile incisivo, quasi epigrafico. Tra il 1925 e il 1935, in seguito alla sua “conversione religiosa” e al (relativo) ripudio di tutta l’opera precedente, aveva esordito con sette romanzi, il più conosciuto dei quali, anche se non il più emblematico, è il primo: Paulina 1880 (1925). Parallelamente aveva pubblicato le raccolte poetiche Noces (1928), Le Paradis perdu (1929) e Sueur de Sang (1933), in cui l’apporto della psicanalisi, già evidente nel romanzo Vagadu (apparso un anno prima) si manifesta in inquietanti immagini di sesso, dolore e morte. Dans les années profondes (1935) è la fine del periodo narrativo: da allora, oltre ad una decina di raccolte poetiche, scriverà tre saggi (Tombeau de Baudelaire, 1942; Don Juan de Mozart, 1943; Wozzeck ou le Nouvel Opéra, 1953) e l’autobiografia En Miroir (1954). 

In Jouve le principali fonti di ispirazione sono il misticismo, la psicoanalisi (la seconda moglie, di professione psicanalista, lo aveva messo a conoscenza dello sviluppo delle terapie con le sue pazienti) e Baudelaire. 

Si era appassionato a Baudelaire già negli anni della sua adolescenza: lo aveva poi perduto di vista nel periodo ‘unanimista’ e in quello dell’amicizia con Romain Rolland; nel romanzo Le Monde désert (1927) vi è un personaggio, Luc Pascal, che fa il mestiere di scrittore, e in lui riconosciamo Jouve stesso, assillato da problemi di vita e di scrittura ‘baudelairiani’. La figura tormentata di Jouve-Baudelaire ricompare in personaggi sempre meglio definiti, fino all’ultimo romanzo in cui il protagonista ha superato una dolorosa iniziazione erotico-poetica (la sua amante gli spira fra le braccia durante un amplesso) e può accedere così al regno della pura poesia: “Eros” e “Thanatos” congiunti nel più profondo peccato e nella più alta beatificazione. 

Sette anni più tardi, nel saggio Tombeau de Baudelaire, considerato tuttora uno dei più illuminanti che siano stati scritti su Baudelaire, Jouve interpreta il Male delle Fleurs du Mal come una maschera del dolore prodotto dal peccato originale, cioè dall’eros ferito dalla morte”. Egli è colpito dalla “rhétorique profonde” di cui parla Baudelaire, le cui leggi, anziché essere basate solo sul ritmo, la rima e la simmetria, partono da associazioni e corrispondenze nel profondo. 

Le Proses di Jouve sono in chiave baudelairiana: come Baudelaire era giunto ai suoi Petits poèmes en prose solo dopo e attraverso Les Fleurs du Mal, quasi la poesia in prosa esigesse un approfondimento rispetto alla poesia in versi, così Jouve compie nelle Proses un nuovo ‘passo’ nel suo percorso poetico e, forse, vi si ferma.

 

 

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Tratto da:

Il pomerio : antologia, commenti , Reggio Emilia : Elitropia, 1983 · 948 p. · Testo originale a fronte. [pp. 375 -393; 825-829]

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