Il verso dell’allocco (1)

 

Bodgan Zwir
Bodgan Zwir

 

 

10 gennaio

 

Il verso dell’Allocco (Strix aluco) nella notte ha qualcosa del lamento interminabile. La seconda nota prolungata, appena termina, sta sospesa nell’attesa del medesimo acuto richiamo. Ho visto in un libro di ricordi di Wolfgang alcune foto di uccelli e rapaci notturni. Due di loro mostrano l’allocco lanciarsi in volo da un camino: l’effetto visivo è assai particolare perché posizione del rapace, intensità della luce creata dal flash nella notte, punto di scatto della foto, tutto sembra uguale, copia di un medesimo unico momento. La sola differenza, che distanzia temporalmente le due immagini, è data dalla presenza in uno dei due scatti della neve sul comignolo di mattoni rossi: in questo caso il particolare diverso rassicura, mentre la fissa ripetizione di tutto il resto aveva generato una sottile inquietudine.

 

La stagione sta vivendo uno strano alternarsi di momenti climatici. Si passa dal freddo intenso ad un tepore quasi statico, dal grigio persistente ai tersi colori del cielo illuminato dal sole, dall’infuriare dei venti all’immobile natura dell’alba. Camminando nella breve escursione mattutina ho la percezione esatta dell’espressione “la primavera che cova” sotto il muto sostare del mondo vegetale. Quell’inudibile e invisibile divenire che si genera dalla profondità della terra è «l’attualizzarsi dell’infinito» di cui parla Hölderlin, dove «opposto e unito sono inseparabili».

 

Vicinanza estrema e estrema lontananza. Questa dialettica della distanza che fonda il mondo dello schizofrenico è un po’ l’immagine di tanti miei rapporti che vivono nell’intermittenza dell’incontro più che sul duraturo confronto dell’amore. A R. ho detto «tutto»: in quattro ore passate insieme son riuscito a condensare il racconto degli ultimi mesi e i progetti di un incerto futuro. Lei conosce i miei sentimenti come forse nessun’altro sa. Tuttavia, dopo questo amplesso fatto di parlare, ci rituffiamo in un silenzio quieto come non avessimo più bisogno l’uno dell’altra e dovessimo riformulare per noi stessi un’altra storia che possa essere raccontata in seguito.

 

In lei si sente la vita forgiata da lunghi momenti solitari. La donna sola, che ogni sera chiude la porta al mondo e non ha figli da accudire o compagni con cui scaldarsi, assomiglia più alla figura di una forte eroina della mitologia greca. Quando è l’uomo invece a vivere l’esperienza della solitudine, si tende a vedere in lui il carattere dell’asocialità o dell’eremitaggio. In questa idea spiritualizzante del maschio e, all’opposto, amazzonica della donna si annida una percezione discriminante che impedisce il confronto con il misterioso e continuo parlare a se stessi di coloro che vivono in solitudine. È anche ciò che respingiamo e temiamo dello psicotico il quale vive da una profonda distanza della mente la prossimità invadente del mondo.

 

Sulla mensola della stanza sopra il focolare vi è una sua foto dove giovane volge lo sguardo di lato a qualcuno la sovrasta. Si nota tutta la voglia di domare il mondo con la risata prorompente e contagiosa. C’è quella freschezza e  quel sentore di pura essenza che ogni volto ritratto nella piena giovinezza emana. «Guarda come sei bella!», «È l’immagine che io vedo dentro me stessa… ancora mi penso in quel modo». Più tardi, quando ho parlato a lungo senza interrompermi, mi dirà che ha visto nel mio volto una trasformazione, un cambiamento: «c’è in te qualcosa di fluido». Chissà se il fuoco ardente dei mesi scorsi sia divenuto un torrente che scivola dolcemente lungo il suo letto.

 

Quando è l’alba, l’allocco sta ancora gemendo.

 

 

Secondo le leggi di una segreta estetica morale, sembra più dignitoso, se si cade, cadere in avanti anziché sulla schiena. (Ernst Jünger, Strahlungen, 221)