Jurij Karlovič Oleša ~ Non un giorno senza una riga

Jurij Karlovič Oleša (1954)

 

Questo “intanto che passeranno gli anni” appariva come una dorata città lontana, come una specie di città del futuro tolta dalla copertina di un romanzo fantastico, e laggiú, in quella lontananza, gli uomini già da tempo erano immortali!

 

 

Aleksandr Ivanovič Kuprin

 

Non un giorno senza una riga 

     Certe volte il porto si riempiva di grigie navi da guerra. Una grande corazzata e, intorno, il trambusto della minutaglia, sino ai motoscafi… Allora, in quei giorni di sosta della squadra navale a Odessa, per la città, conquistando le ragazze, passeggiavano i marinai della flotta militare (marinai comuni a Odessa ce n’erano molti, ma quelli erano veri marinai della flotta militare con le mostrine sulle bianche spalle dei camiciotti olandesi). 

     In quell’epoca, nell’esercito e nella marina si portavano i baffi. I marinai facevano particolare sfoggio di questo ornamento, dei loro piccoli baffi, scintillanti come se fossero stati lucidati e, nella maggior parte dei casi, neri, perché la flotta veniva arruolata in Ucraina. Le loro facce erano rossastre e abbronzate, i petti elegantemente sporgenti, i baffi di seta… Talvolta fa capolino l’idea che proprio i marinai nei primi tempi fossero la forza fisica della rivoluzione. 

     Io conoscevo un marinaio intellettuale, che, parlando con me del comunismo, mi addusse in qualità di metafora l’uccello azzurro della felicità di Maeterlinck; quel marinaio era Anatolij Železnjakov, lo stesso a cui venne affidato lo scioglimento (per cosí dire, l’esecuzione tecnica di esso) dell’Assemblea Costituente. Com’è noto, egli improvvisamente si avvicinò a Černov che presiedeva e disse: 

     “Il corpo di guardia è stanco. Bisogna terminare.” 

     Il corpo di guardia era formato da marinai. 

     Era un uomo molto bello, Zeleznjakov, di pelo chiaro, direi affinato in volo. Fu ucciso sul Don in battaglia, contro Denikin; ucciso mentre, sporgendosi da una feritoia del treno blindato, sparava impugnando due pistole contemporaneamente. E così rimase sospeso sull’orlo della feritoia, con la testa in giù e le braccia che penzolavano lungo la fiancata del treno blindato con le due pistole che scivolavano via dalle mani. Questo me l’ha raccontato un testimone oculare. 

     Talvolta si pensa quanto è corta la vita. Ma non è vero, la mia vita è lunga. Com’è lontano, per esempio, quel giorno in cui, uscendo sul boulevard, camminavo lungo il suo parapetto sospeso sul porto, scrutando il mare grigio, il panorama del porto, e cercando le tracce di ciò che era accaduto nella notte. Quella notte una corazzata turca aveva forzato il porto e, aprendo il fuoco, aveva affondato una cannoniera russa e danneggiato un bastimento mercantile francese. 1915! Ecco quanto tempo è passato dalla prima guerra imperialistica! Per i miei contemporanei d’oggi, e neppure ormai troppo giovani, e anche per gli uomini maturi della nostra epoca, ciò che ora ho ricordato come testimone, con ogni probabilità appare come un passato remoto non meno di quel che a me apparivano, diciamo, i racconti dei miei contemporanei piú anziani sulla presa di Šipka! 

     L’obice caduto sulla nave francese aveva sfondato la cabina della cameriera. Raccontavano che, insieme con la cameriera, era rimasto ucciso anche il cuoco. A noi ginnasiali questa notizia fornì il pretesto per discorsi faceti. In quei giorni, in un mattino altrettanto grigio, vidi i funerali di quella cameriera e di quel cuoco. Un corteo breve ma fitto risaliva il Polskij Spusk. Ricordo i marinai con i pompon sui berretti e un magnifico capitano con una mantellina blu a due strati e una casquette con la visiera scintillante. C’era anche un prete con una veste di pizzo. 

     Io guardavo dal ponte e le due strette bare mi sembravano coricate sopra il corteo; le due strette bare simili a due scarabei che avessero chiuso le lunghe ali. 

     Mi ero fermato a guardare il corteo funebre mentre stavo recandomi al ginnasio. Avrei dovuto affrettarmi e invece continuavo a seguire con lo sguardo la schiena blu del capitano, le due bare, della cameriera francese che non conoscevo e del cuoco. Il mattino era grigio, e davanti a me avevo una giornata di scuola piena d’ansie, davanti a me avevo tutta la vita, piena di giorni…

Ё

Una volta mentre tornavo a casa per le vie di Odessa, che era immersa nel buio e si trovava sotto il blocco di un incrociatore inglese, a un tratto da un angolo sbucarono di corsa dei marinai con nastri di mitragliatrice a tracolla; evidentemente stavano compiendo qualche operazione e, correndo, scomparvero subito in un vicolo. Ma poi uno di loro ritornò indietro di corsa e mi domandò se avessero imboccato il vicolo giusto, come si chiamava… E mi ricordo che egli mi gridò, prima di farmi quella domanda: 

“Fratellino!” 

Io ero un fratellino dei marinai! In quante maniere mi hanno apostrofato nella mia vita, chiamandomi persino “maestro”! “Bravo maestro!” mi gridò il bulgaro Panteleev, direttore d’orchestra, a non so piú quale serata poetica a Odessa. Ma, quando la mia anima sta male, io ricordo proprio questo richiamo che allora mi era palpitato sulla spalla: 

“Fratellino!”

Aleksandr Ivanovič Kuprin

Џ

     Quest’anno la primavera si dispiega in modo eccezionalmente lento. Quel verde che oggi si intravede fra le case, dietro le case, non è ancor lontanamente ciò che si chiama primo verde primaverile. Questo verde non c’è ancora, si lascia soltanto intuire. Non si sente, per esempio, l’odore caratteristico di queste giornate. O può essere che il mondo non stabilisca un contatto con me? Può essere che con gli anni si perda la possibilità di questo contatto? Può anche darsi che sia lo scolaro a sentire quest’odore, questo scolaro che mi sta passando vicino, il quale, come io un tempo, vuole sbrigarsi al piú presto e coscienziosamente di tutte le sue preoccupazioni per non vivere una sola giornata della primavera senza prestarvi attenzione. 

     Bisogna tirarsi fuori dalla città. Prenderò il treno sino a una stazione qualsiasi, scenderò e mi fermerò lì. Si stabilirà il contatto? Una volta io volevo mangiare la natura, strofinarmi con la guancia sul tronco dell’albero, graffiandomi la pelle a sangue. Una volta, trovandomi per la prima volta di nuovo in campagna dopo un lungo intervallo, salii di corsa su un piccolo monticello, e, senza vedere che intorno c’era un cimitero, mi lasciai cadere in estasi con la faccia nell’erba, in un’erba tagliente come un coltello, che mi feriva, e piansi per la coscienza di quella vicinanza alla terra, parlando con la terra. Rialzandomi, vidi il cimitero di campagna con le croci di piallaccio, con le fotografie a cartolina, tutto sprofondato in sinuosi rampicanti lilla e con una quercia scura che si chinava su di esso e stormiva.

Д

     Non era domenica, né una qualsiasi festa. Qui sta il fatto, che era un comune giorno feriale e neppure con il presagio di qualche avvenimento della storia o dell’atmosfera: della primavera, diciamo, o di una visita dello zar, no, era un comune giorno feriale nel mezzo di una stagione già da tempo definita. 

     E nondimeno a pranzo servirono il tacchino e vi fu persino quel dolce, che quasi si ricollega alle fiabe, il dolce che è pericoloso persino mangiare: non c’è il caso di trasformarsi in un nano? Il gelato! 

     Ma precisamente in questo modo, con un pranzo più che festivo in una giornata comune, mi apparve per la prima volta la ricchezza, mi apparve la classe dominante. 

     “Jura, rimani a pranzo? Jura rimane a pranzo! Sí, sí, a pranzo!” 

     Allora avevo dieci anni, non ero nemmeno ginnasiale. Ero semplicemente un bambino con i calzoni corti di color blu e le lunghe calze nere. 

     Semplicemente un bambino. 

     “Ragazzo!” gridavano a qualcuno e anch’io mi voltavo. Ma mi volterò adesso, quando grideranno: 

     “Vecchio!” 

     No, non mi volterò. Non voglio? No, credo che qui si tratti soprattutto di stupore che ciò sia accaduto così presto… 

     Come è successo? 

     “Vecchio! Ehi, vecchio!” 

     No, non sono io, non può essere. “Vecchio!” 

     No, non mi volterò. Non può essere che sia accaduto. cosí presto. 

     “Vecchio! Guarda che stupido, non si volta! Ma se sono, io che lo chiamo, la morte!”

Aleksandr Ivanovič Kuprin

Ж

     Certe volte, avete appena serrato le palpebre ed ecco irrompere nel cervello ancora addormentato una visione, no, non una visione, ma una specie di orrenda linea o forse anche una frase… E allora vivete un istante di terrore senza paragoni. Ma è poi veramente terrore? No, è già l’inesistenza in sé, è già l’effetto sul cervello dell’attività di cellule che con ogni probabilità si sono messe in movimento per sbaglio e che saranno chiamate ad agire soltanto dopo che siete morto. 

     E certe volte nello stesso cervello (ciò avviene verso la fine della notte, durante i sogni più tardi) appaiono visioni di località di campagna, di paesaggi di tale incomparabile bellezza che sembrano tolti dalle tele del Veronese. Che cos’è ciò in tal caso? Ricordi? Immagini di tristezza per la gioventù passata? 

     Non è forse sorprendente che il nostro cervello abbia visioni spaventose? Perché accade questo? Chi vuole spaventarci? Forse la natura sa che cosa ci fa paura e che cosa non ci fa paura? È la coscienza che ci fa paura? Oppure è atavismo, la memoria della tigre dai denti sciabolati? 

Ч

     Una delle caratteristiche della giovinezza è certamente la convinzione di essere immortali, e non già in un senso irreale, astratto, ma nel senso letterale: “Non morirò mai!” E ciò ad onta della melanconia propria alla giovinezza, nonostante il pensiero del suicidio… 

     Sicuramente non morirò mai, pensavo in gioventú. Intanto che diventerò adulto, intanto che passeranno gli anni, inventeranno qualcosa che impedirà agli uomini di morire. Questo “intanto che passeranno gli anni” appariva come una dorata città lontana, come una specie di città del futuro tolta dalla copertina di un romanzo fantastico, e laggiú, in quella lontananza, gli uomini già da tempo erano immortali! È interessante che l’immortalità apparisse appunto come il risultato di qualche scoperta, invenzione. Certe grandi macchine, fulmini grossi come un albero… E strano che nessuno scrittore abbia notato questa convinzione dei giovani d’essere immortali. 

Aleksandr Ivanovič Kuprin

Э

     Avevo cercato quel documentario per vedere il brano di vita spagnola che vi era incluso: una corrida (che vi fosse incluso questo brano l’avevo saputo dal giornale). Ed ecco cominciare il pezzo. Una didascalia o uno speaker, non ricordo, informa che in Spagna esiste ancora il combattimento contro i tori e che adesso avremmo visto la cronaca di un combattimento del genere nell’arena di Madrid e con la partecipazione di un celebre matador

     Dapprima vidi un lembo dell’arena, una specie di colosseo invaso dal sole, che, essendo mostrato di scorcio, pareva una fetta d’anguria messa in piedi con il formicolio dei suoi semi neri: la gente. Poi apparvero in primo piano due donne spagnole quasi nude, che agitavano i ventagli sotto il sole. Poi, in piano americano, vidi il picador su un cavallo che, in attesa del toro, egli obbligava a star quasi fermo sul posto e a muover le zampe in modo elastico, come molle. Il toro nero in mezzo al vuoto dell’arena correva verso di me di schiena, con due banderillas piantate sul dorso, e faceva pensare a un insetto ferito che non potesse più in alcun modo raccogliere le elitre striscianti. Ma a questo punto il quadro si riempì quasi in tutta la sua grandezza di due figure: il toro e il matador! Il cuore cominciò a battermi per l’ansia e l’entusiasmo. Ecco dunque che facevano quei matadores, quegli espadas! Egli era assai vicino al toro, in ogni caso in contatto con il suo corpo; era avviluppato dal corpo del toro che gli correva intorno, inseguendo il panno con cui il famoso matador giocava. In quei pochi istanti, mentre davanti a me oscillava quel quadro scuro che aveva quasi il respiro pesante del toro e del matador, sentii che dentro di me erano state messe in movimento forze segrete e assai potenti dell’anima… Io ero la donna innamorata del matador e, al contrario, nello stesso tempo in quel momento più di ogni altra cosa disprezzavo le donne, e il cuore mi batteva in continuazione ed ero pronto a urlare insieme a quell’arena. Già, chi sa come mi avrebbe risposto Majakovskij che, assistendo a una corrida, s’era rammaricato che alle corna del toro non fosse legata una mitragliatrice che aprisse il fuoco. sugli spettatori! 

Ъ

     Lungo la via Ekaterinskaja mi veniva incontro una strana processione. Per prima cosa vidi un asino, la sua grande testa. Era aggiogato e tirava una specie di furgone in serpa al quale stava uno zuavo in compagnia di un greco con la sua uniforme militare color dell’erba. Il furgone pareva fatto di vimini intrecciati ed era ricoperto di una stoffa che in certi punti si era lacerata e lasciava filtrare all’interno la luce del sole. 

     Intorno al furgone si muovevano altri soldati in varie uniformi ormai fuori uso, ma io non mi soffermai su di loro. Era difficile fermare l’attenzione su qualcosa dopo aver visto che la luce, filtrante attraverso i cenci del furgone, illuminava un cadavere. Nel furgone c’era una bara, di schiena al vetturino, e nella bara giaceva un soldato morto con la faccia come incendiata dal raggio di sole che vi cadeva sopra. Un soldato di chi sa quale corona… Non so dove si dirigesse la processione e non so neppure che cosa riunisse intorno a colui che giaceva nella bara quella gente di nazionalità diverse, almeno una mezza dozzina, so soltanto che mi era stata mostrata dalla storia l’immagine filantropica della guerra: di una grande calamità che alla fin fine serve alla fratellanza fra gli uomini. 

Aleksandr Ivanovič Kuprin

Ђ

     Ricordo che durante tutta la mia vita mi ha sempre impedito di vivere la considerazione assillante, che prima di cominciare a vivere tranquillamente dovevo sbarazzarmi di una data preoccupazione… La preoccupazione assumeva varie maschere; a volte era un romanzo che mi accingevo a scrivere (ecco, appena avrò scritto il romanzo, vivrò in pace!), a volte un appartamento che mi doveva essere assegnato, a volte la liquidazione di una lite con qualcuno, o chi sa quale altra circostanza. Qualunque cosa avessi eseguito, non potei però mai dire a me stesso: ecco, finalmente adesso vivrò in pace. Evidentemente la cosa più importante da vincere per vivere in pace era la vita stessa. Sicché si può portare tutto ciò a un paradosso: che la cosa più difficile della mia vita era proprio la vita, ossia: aspettate, appena sarò morto comincerò a vivere! 

Ў

Certe volte viene in mente il pensiero che forse la paura di morire non è altro che il ricordo della paura di nascere. In realtà, c’è stato un momento in cui, lacerando la bocca in un grido, ci siamo staccati da una specie di stratificazione sanguinante per affacciarci in un ambiente ignoto, per capitare sul palmo delle mani di qualcuno… Non era forse una cosa da far paura? 

З

     Mai, né da bambino, né in gioventù, né poi in anni maturi, insomma, mai una volta in tutta la mia vita avevo sentito il canto dell’usignolo… Per me questa era una menzogna, una convenzione, sia che ne parlassi, sia che ne leggessi. 

     Ed ecco che una volta, in anni ormai assai maturi, quando vivevo nella campagna di Mosca, in pieno giorno, e, piú esattamente, a mezzodì, quando tutto era immobile fra gli uccelli e le piante, a un tratto qualcosa rotolò fuori dal silenzio, enorme ruota risonante, e continuò a rotolare sulla terra… E, dietro questa, subito un’altra ruota, un’altra ancora… E poi tutto cessò di colpo. 

Queste ruote erano indubbiamente d’oro, piú alte degli alberi; erano rotolate rimanendo in piedi, diritte, e, a un tratto, dopo aver tintinnato, istantaneamente scomparvero. Come se mai ci fossero state! 

     Guardai chi mi stava accanto. Costui assentì con il capo. 

     Aveva udito la domanda che io non avevo pronunciato, che io avevo soltanto avuto l’intenzione di pronunciare: un usignolo? 

     E annuendo con il capo, rispose: 

     “Un usignolo.”

1954-56 

Jurij Karlovič Oleša nacque nel 1899 a Odessa e esordì sulla stampa locale poco dopo il 1920 con pezzi giornalistici e feuilletons in versi firmati Zubilo. Nel 1924 scrisse quell’affascinante e intelligente fiaba moderna per ragazzi che è il romanzo I tre grassoni, ma esso fu pubblicato assai più tardi. La rivelazione di Oleša fu data dal romanzo L’invidia, uscito nel 1927; poi, nel giro di cinque o sei anni egli stampò ancora alcuni eccezionali racconti, commedie e acuti articoli letterari. Dopo di che la sua breve stagione creativa si estinse, di suo uscirono soltanto pochissime cose fra cui originali appunti letterari. Si spense a Mosca nel 1960. L’invidia, al suo primo apparire, s’era imposto come uno dei più arditi romanzi sulla problematica allora attuale nell’Urss: gli intellettuali e il socialismo, la civiltà industriale, l’uomo vecchio e l’uomo nuovo. Ma subito, se costretto nei termini locali e storici di questa tematica, il suo messaggio era sembrato ambiguo e inafferrabile: la satira del vecchio mondo, incarnato soprattutto dal protagonista Kavalerov, non era spuntata ed anzi rovesciata dalla satira ben più atroce di Babičev e di chi altro era messo lí a rappresentare il mondo nuovo? Kavalerov viene sconfitto, annientato, precipitato in basso, nel sozzo letto della vedova Prokopovič, ma chi erano quei vincitori che concepivano l’ideale del socialismo nei termini di grandiose tavole calde e di efficienza fisica e sportiva? La satira è dunque ambivalente, come già era avvenuto per la Cimice di Majakovskij, e L’invidia, insieme a certi racconti, è un libro straordinario proprio per questo, che, letto oggi, non soltanto dimostra intatte le sue qualità d’invenzione, la novità formale, la forza di scoperta, ma rivela contenuti assai più profondi di quelli che gli poteva attribuire la critica di allora. Ed Oleša si riconferma uno degli scrittori piú nuovi del Novecento per la sua visione della civiltà industriale e dell’alienazione, contro cui non eleva la vecchia protesta romantica ma oppone una sintesi di razionalità e di invenzione e dunque un nuovo linguaggio letterario.

Traduzione e nota di Pietro  Zveteremich                          

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