«Come il fumo del comignolo» (4)

 

Alison Watt, Shoal, 2013
Alison Watt, Shoal, 2013

 

7 dicembre

 

 

Sempre più spesso la mattina, appena alzato, mi fuoriesce il sangue dal naso. L’acqua fredda che trattengo per restituire rossastra crea un contrasto di piacevolezza e leggera preoccupazione. Una furtiva goccia di sangue, sfuggita alla carta assorbente, cade nel pavimento di legno con la sua singolare consistenza dal carattere sinistro. Un rumore appena percettibile all’udito invade la scena mattutina e nel segreto della casa, mentre fuori la vita ha ripreso indifferente il suo corso, sembra avverarsi un destino: si scrive un inizio che ad altri sarà completamente sconosciuto. #

Cammino in paese e guardo distratto la successione asimmetrica delle finestre. Tra loro ci son quelle della casa di D., che, si dice, sia molto sofferente e ormai nel percorso segnato dalla fine. Cerco di capire qual’è la muta persiana che nasconde la camera del dolore e torno alle mie morti, a quella inutile e disincantata premura che avvolge il corpo del malato moribondo. #

 

 

Alla ricerca di vecchie emozioni ho ripreso a leggere Letterine di Julien Gracq. La prima lettura, con il suo passo lento e la paura di perdere ogni recondito significato, aveva donato un entusiasmo da infatuazione, che poi pagammo quando, mutati dalla riflessione silenziosa del tempo, vedemmo il suo svanire e dissolversi nelle maglie larghe della memoria. Ora però la rilettura ha portato con sé una velocità superiore, lo sguardo alto che concede una cernita certa e sicura, e giunto alle pagine su Pornichet, sento emergere da qualche recesso una felicità sopita, un’allerta che dice, ecco!. Il lettore viandante rallenta il suo passo, niente fa dire ora ricordo!, ma gode di un piacere dimenticato che si va rinnovando.
Pornichet, luogo sconosciuto e appartenente ad una geografia imprecisa. Una casa che si affaccia sul mare nella forza del vento, il profumo dei fiori sulla duna, la magia del cinema muto proiettato su un rudimentale telo di fronte alla linea bianca delle onde, le limonate bevute sulla terrazza. Gesti inutili e ricordi minuti, leggeri, senza peso nel corso di un’esistenza. Eppure, in questo primato della vista e dell’odorato, si ha il sentimento di toccare una pagina indimenticabile di una letteratura per certi versi minore.

Letterine rimane un libro di geografia metafisica, dove il filtro dell’io è fondamentale e la storia è trascesa nello sguardo di un reale topologico misterioso e vitale, dove la necessità di circoscrivere ogni cosa nel suo luogo, rimane l’attracco principe all’elaborazione teorica.

Ogni libro degno di questo nome, se funziona realmente, funziona all’interno di una cinta c h i u s a, e la sua massima virtù è di recuperare e rincorporare – modificate – tutte le energie che libera, e di ricevere in cambio, riflesse, tutte le onde che emana. È questa la differenza con la vita, incomparabilmente più ricca e più varia, in cui la regola è però l’irradiamento e la dispersione sterile nell’illimitato. Spazio chiuso del libro: se è troppo ristretto, è il segno della sua debolezza. Ma se è anche ermetico, è il segreto della sua efficacia. (227)

 

 

Il modo migliore di terminare la giornata di ieri era stata la casuale lettura di una nota di Freud sul culto delle divinità ad Efeso nel corso dei secoli. Artemide ed Efeso vi appaiono con tutto il peso della mitologia greca.

Oggi nella visita di R., occasione per vedere i suoi ultimi lavori con i cinquanta rematori Argonauti, la serie delle Danaidi e delle Nereidi, cerco la misteriosa coincidenza. Una medesima immagine o un oggetto vuoto si ripete per ogni nome degli eroi Argonauti, delle figlie di Danao e delle bellissime ninfe marine, ognuno evocativo di una storia diversa. Come Dèi Olimpi – che Calasso immaginava affacciati ai balconi del cielo – siamo presi dal potere suggestionante del mito iscritto tutto in quei nomi arcaici. Tutto sembra profondo e inutile,  fugace e elegante, inafferrabile.
La stessa lettura di Grande è la Diana Efesia racchiude il senso dell’interrogazione e il mistero del suo percorso. Dall’alto dei secoli le divinità avevano preso a succedersi occupando ripetutamente lo spirito di un medesimo luogo. Dapprima gli invasori Ioni vi trovarono la divinità matriarcale Oupis che subito identificarono con Artemide. In seguito l’ebreo Paolo introdusse uno spirito religioso nuovo che parve mettere in pericolo «la maestà della grande Dea». Con la venuta dell’apostolo Giovanni, a cui Gesù, si dice, avesse affidato la madre, una nuova divinità materna s’impose, e questa rimase sino ai nostri giorni. Ma in questo connubio ancestrale con la forza generativa del divino «la grande Dea di Efeso» sembra attendere nascosta la sua nuova occasione.#

In arrivo il freddo, che quest’anno pare l’antitesi totale a ciò che noi siamo. Così in stazione, ad accogliere Christiane che giunge da Parigi, il primo commento riguarda proprio la rigida temperatura. Io guardo il suo cappotto leggero racchiudere un corpo asciutto e dimesso, in definitiva poco femminile. Trovo difficoltà a spiegare il mio “non lavoro”, mentre lei con naturalezza fa un accenno simpatico al fratello che da oltre dieci anni vive consapevolmente nella precarietà, ai margini di quella sicurezza minima concessa che a me fa sentire così in colpa.#

 

 

Anche la novella del Boccaccio sulla ricerca dell’elitropia da parte di Calandrino è una storia sulla natura dei «nomi parlanti», il potere di nominazione e l’illusione dell’uso della cosa solo per la sua qualità.

A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente; per che egli rispose: “Che abbian noi a fare del nome poi che noi ne sappiamo la vertù”. (31)

Ma qui si rovescia, nel disincanto di una rassegnata visione popolana, il lavoro del mito che riverbera invece la sua forza nella proprietà nominativa insita nell’eroe. #

Trovo ardua l’elaborazione della figura di Paolo nel pensiero di Freud. L’ebreo Paolo è citato per il suo tentativo ostinato e rivoluzionario ad Efeso, in seguito come pensatore dell’«amore universale» e infine nel magnifico L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Se è vero che Freud subì il fascino della potente personalità mosaica, è in Paolo che trova il suo reale alter ego. Dalla divinità femminile in Efeso al superamento del primigenio parricidio. Ma in fondo Mosè e Paolo furono due «scrittori» nel senso più creativo del termine

Ciò che rende forte la religione non è sempre la sua verità reale, ma la sua verità storica. (a Lou Andreas-Salomè, 6.1.1935)

E soprattutto, in quello che mi sembra il suo testamento:

La verità è spesso molto inverosimile e solo in misura molto esigua le prove effettive possono essere sostituite da deduzioni e congetture. (9.8.1934)

Mentre cerco in Osea (Os 12, 14-15) il passo su cui si costruì l’ipotesi che Mosè fosse stato ucciso dagli stessi stessi, ripresa ne L’uomo Mosè, colgo l’immagine successiva:

saranno come una nube sul mattino, come la rugiada che in fretta si scioglie, come paglia portata lontano dal vento, come il fumo del comignolo! (Os 13,3)

Poesia pura che non ha ancora elaborato figure e forme complesse ma che suscita nel lettore un’impressione di infinito, lasciando l’immaginazione «errare nel vago e indeterminato (…), [in un] divino ondeggiamento d’idee confuse» (Leopardi). Proprio Jünger nei suoi Diari mostra come la lettura della Bibbia sia esercizio del pensiero che deve essere affrontato circolarmente in modo da cogliere i frutti inaspettati nel loro momento propizio.

 

 

Visita mattutina del Picchio rosso maggiore, il Dendrocopos major, sul noce dietro la casa. Più tardi, come un avvicendarsi nel decrescendo della specie, giunge anche l’agitato Picchio minore, il Dendrocopos minor. Uccelli, in definitiva, rari alla vista, silenziosi e molto guardinghi.

Genesi, 1.15. Racconto straordinario dove l’interpretazione è resa confusa in un difficile irretimento dalla stratificazione teologica successiva. Chi è questo Signore che prima di creare la donna modella gli animali della terra e del cielo e lascia all’uomo il compito di nominarli? Eden: ecco il primo luogo nominato della Bibbia. Tra i patriarchi prima del diluvio Enoch fu rapito da Dio e «non ci fu più». Secondo Paolo «fu trasportato in modo da non vedere la morte» (Eb 11,5).

 

 

Solo ieri mattina studiavo il colore rosso del sottocoda del Dendrocopos major – segno distintivo rispetto a tutti gli altri picchi – e già oggi una spruzzata di neve ha irrigidito il paesaggio come una foto rovinata dall’acido: un’insufficiente nevicata provoca una delusione sorda, un’insoddisfazione diffusa, come un’irregolare e casuale perdita della vernice su un vecchio mobile. #

Genesi. 6.11. Sorprende il silenzio di Noè, tutto questo fare, costruire, raccogliere, ordinare, classificare, dividere, attendere, senza emettere una parola, un grido. Perché dopo il diluvio manda il corvo e solo in seguito la colomba a verificare se le acque si sono ritirate? Anche il corvo aveva fatto spola, «andando e tornando», dall’arca alla terra; eppure è alla colomba che si associa la buona notizia. Poi la litania dei nomi: Iafet, Gomer, Magog, Madai, Iavan, Tubal, Mesech, Tiras … e Askenaz, Rifat e Togarma … fino a Elam, Assur, Arpacsàd, Lud, Aram e poi Uz, Cul, Gheter e Mas … Di nuovo la nominazione, un nominare che sostituisce e condensa la proliferazione delle storie di generazioni, tribù, famiglie, individui. Alla fine questo Signore, proiezione delle meraviglie e delle sventure a cui l’uomo è soggetto, non porta con sé elementi di simpatia o superiore trasfigurazione del senso, ma punisce e rimane deluso a causa della sua stessa opera.

Il mio spirito non durerà per sempre nell’uomo, perché egli non è che carne. (Gen 6,3)

Difficile lettura perché la profondità del mito a cui attinge e il ripetuto e incessante lavoro esegetico e teologico hanno creato una ragnatela, un codice, a cui difficilmente possiamo sottrarci. La prova della perversa attività divina sia questa:

Orsù, discendiamo e confondiamo laggiù la loro lingua, cosicché essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro. (11,7)

Il Genesi investe l’uomo di una responsabilità che dentro di sé sente d’indirizzare al Signore e questi a sua volta ama e sopporta la sua creatura secondo un comportamento «umano».

 

 

Mi sento come quelle orchidee dallo

smalto bianco lucente destinato senza dubbio ad attrarre gli occhi degli insetti nella foresta vergine. Impudicizia e innocenza si intrecciano stranamente in questi fiori. (Jünger, Strahlungen, 41)

La vista e la sorpresa degli uccelli, in particolare quelli insoliti alle nostre abitudini, come i due picchi alcune mattine fa, risulta una delle rare esperienze spirituali. Forse perché rimangono solo particolari insignificanti e inspiegabili dal punto di vista della piacevolezza che trasmettono. Lo sono, ad esempio, il colore vivo del rosso nel sottocoda del Dendrocopos major o al contrario proprio la sua assenza in quello minor. Ma ciò che dà un’impressione di stupore è l’imprevedibilità del suo accadere e la sua non riproducibilità immediata e seriale. Oggi che tutto può essere ripetuto, rivisto, selezionato, frammento per frammento nel suo “essere stato”, si sposta la sorpresa dalla nostra anima alla forma tecnica, alla copia di ciò che è stato.

 

Ritorna al mattino il Picchio maggiore: questa volta è la femmina perché manca del rosso nella nuca. Attorno vola una Gazza, insulsa persino nel nome latino Pica Pica. #

Come contraltare al filo conduttore di questi giorni (Paolo di Tarso) leggo Paneros di Norman Douglas, dove è scritto

stimolare la concupiscenza non è afrodisiaco, ma un tormento. (70)

Se l’immagine di Jünger della bianca orchidea racchiude in sé impudicizia e innocenza, trovo scritto in Douglas – a ennesima riprova che la coincidenza regola il battito dello spirito e suggella il vero sentire – che il Satirio (Satyrium hircinum), della specie delle orchidee e volgarmente chiamato “testicolo di cane”, era il cibo dei satiri lussuriosi. Il loro nome deriva da Orchide, passionale figlio di un satiro ucciso per aver deflorato una vestale di Bacco. Dioscoride, padre della botanica, afferma che alle varietà bianche e rosse erano attribuite virtù afrodisiache (38-39). Tutto questo ci dice quanto Jünger avesse raggiunto un grado di percezione talmente acuta del mondo vegetale da cogliere queste sfumature, invisibili ai più. Quando uno scrittore sa unire capacità introspettiva a rigoroso sguardo scientifico, di solito si ottiene una letteratura algida e quasi perfetta. È il caso – paradossale nell’accostamento – di Primo Levi.

 

 

19 e 20 dicembre

Giunge la neve e poi il freddo polare. Uscendo nel retro della casa, lungo la strada dei campi, mi sento avvolto dalla luce che ovunque si riverbera: tutto sembra più vivido, senza sfumature e il tenue azzurro grigiastro del paesaggio è sostituito da una lucentezza piena. Eppure la figura umana che avanza con il passo deciso ad affondare l’incontaminata massa bianca uniforme, si sente osservata dappertutto come se un dio impertinente avesse annullato ogni possibilità di nascondimento. #

Raccolgo in Paneros decine di nomi per un dizionario della mia non conoscenza. Per lo più sono termini della botanica a cui fu richiesto di indicare i potenti afrodisiaci o al contrario i nemici di Venere: dalla mandragora all’eringio, dal partenio all’agnocasto, dalla datura al puleggio. È un viaggio nella sperimentazione della contaminazione con il mondo vegetale o animale che l’uomo ha sempre tentato per esorcizzare la morte in un variegato elenco di termini e rimedi di un divertente capitolo della storia della follia umana. #

Genesi, 12-25. Abramo e Sara, Sara e Agar, nascita di Ismaele, il riso di Sara, Sodoma, Moabiti e Ammoniti, Sara data a Abimelech, la nascita di Isacco, Abramo deve uccidere Isacco, morte di Sara, Rebecca sposa di Isacco, altri figli di Abramo, morte di Abramo. Dopo il favoloso e la misteriosa origine dell’umano e del mondo sensibile, irrompe la Storia e il verosimile: l’uomo e la donna, la sterilità e la procreazione, la ragione e la follia, l’interdetto e la pratica del sesso. Racconto multiforme che l’esegesi non riesce a contenere tutto, fonte inesauribile della trama umana.

 

 

Ho anche la sensazione che [quei fiori] mi parlino con parole, con frasi dolci e consolanti. E ogni volta, il dolore che da tutto questo nessun suono mi giunga all’orecchio. Ci si sente chiamati, ma non si sa da dove. (E. Jünger, Strahlungen 26)