Anna Achmatova e la campana dei Bellini

 

Akhmatova_1914

 

 

1 maggio

A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita, per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo, lo sforzo più grande che io possa fare: vincere il peso delle parole inanimate, farle vive. (Antonia Pozzi, 9 settembre 1933)

 

Ieri abbiamo ripulito lo spazio erboso di una villa, dove ora un’artista che usa raccogliere dai rifiuti il materiale più vario ha il proprio atelier. La piccola e elegante villa si trova ai margini della tenuta di una più famosa e pretenziosa “fattoria”, nascosta dal bambù e protetta da due piante secolari e imponenti, un cedro del Libano e una magnolia. In un’ala dell’edificio alcuni appartamenti ospitarono i dipendenti dei proprietari e in uno di questi, tre stanze che davano su un retro frondoso e buio, sono nato io. Per una sorte che ancora interrogo come bizzarra, sono tornato a vivere nelle sue vicinanze, e ora dalla mia casa posso vedere la camera dove la mamma mi fece nascere. I padroni della Villa furono i Bellini, possidenti di città che vi venivano solo d’estate, quando si recludevano nella casa senza dare alcun segno di sé al paese. Ricordo bene la proprietaria, una donna dalla pettinatura antica e gli abiti fortemente morigerati che rimandavano all’Ottocento. Sebbene si fosse oltrepassata la metà del secolo, capitava che ancora comparissero, come oggetti fuori luogo e di un’eccentricità vistosa, persone che vivevano ancora di costumi e usanze antiche.

 

 

Lavoro mi tieni lontano dal taccuino, l’ulivo è il mio nuovo compagno.
In questi giorni penso ad “Anna Achmatova”. Forse anche lei mi sta pensando. Non so come e perché, ma il fatto d’incrociarsi con il pensiero può essere già tanto. Sono sicuro che questo avviene perché per un periodo di tempo i nostri sentieri riuscivano a intrecciarsi con tanta facilità. Poi, è vero, coesiste una volontà di pensarsi distanti, attratti da un altro a noi ignoto, e per tutto questo restiamo sottilmente arrabbiati, come delusi. Fa parte dell’incapacità a sostenere il silenzio, ormai definitivo.

Lettura di Primo amore di Ivan Turgenev.

 

2 maggio

Nostalgia. Cos’è questo sentimento unico e incurabile che prende come una malattia senza sintomi? Chi non ha nostalgia non ha futuro, non avendo un passato in cui ha vissuto veramente ma crede e teme che tutto ancora debba avvenire, che niente valga la pena essere fermato come se spettasse al domani donarci ciò che è migliore. Se proviamo a descrivere ciò che punge dentro ancora, nell’indefinito del ricordo, non sappiamo dirlo, mentre abbiamo l’assoluta certezza che nessuno può comprenderlo. Nostalgia non prevede compassione e l’amore detesta il rimpianto, e neppure chi ti ama, chi conosce tutto di te, nessuno può provare quello struggimento senza trama e aggettivi, senza una certa motivazione e una chiarezza che faccia dire – “so quello che stai provando”. Basta una musica, non importa se bellissima e meravigliosa, per poter scivolare in un dolcissimo dolore. Quella melodia alla lunga irrita gli altri perché troppo vecchia, troppo triste, poco varia, ma si entra nel suo spettro come avvolti da invisibili raggi indirizzati al proprio corpo mentre attorno ognuno è protetto da pesanti pareti impenetrabili. Neppure la musica che ascoltiamo può piacere fino in fondo e sembra vivere su un crinale oltre il quale è già qualcosa d’altro, come se più lontana nel tempo si fosse dilatata in un periodo “realmente accaduto” fatto di ricordi piacevoli e di gioventù spensierata. Ma solo ciò che avrà toccato quella linea, quel niente autentico senza tempo, avrà il potere di sciogliere come miele l’irrepetibile eterno dell’esperienza. È un clima, una stagione, un valore, un colore del mattino, la bruma di un tardo inverno, il cupo di una rivolta sociale, il sentire diffuso di un divenire che si annuncia, l’occasione della vita che incrocia la storia, la follia di un gesto che fa esplodere compatta la moltitudine, lo sguardo di terrore di un uomo, la festa pagana che rigenera la terra. Tutto questo non ha corpo e descriverne le scene come fossero membra significherebbe disegnare un’incomprensibile figura. Questa è la nostalgia che provo ascoltando Analfabetizzazione ed è un sentimento unico che sono sollevato di non dovere trasmettere agli altri. Ciò mi rende amante, unico e vivo.

 

 

Cosa mi ha fatto prendere Primo amore di Turgenev? È stata la spossatezza della giornata a farmi cadere nel divano senza forze? O il litigio e il mio burbero appartarmi dalla famiglia compatta alleata contro di me? Concordanze, strane armonie con quello che nella libreria riposa sepolto alla luce tra le pagine che si baciano. La discussione con il figlio, che consuma le prime sofferenze d’amore, precede ma non guida il ricordo di un libro che solo nel suo ultimo capitolo ricompone un dejà lu sino allora inesistente. Eppure si parla di un padre e di un figlio, di un legame oscuro e profondo, si descrive forse quello che è stato toccato in questi giorni. Nessun dio però può avermi suggerito una lettura così reale.

«Mio padre aveva un’influenza straordinaria su di me e straordinari erano i nostri rapporti. Non si occupava quasi della mia educazione e non mi offendeva mai, rispettava la mia libertà e con me era anche gentile, solo che non mi faceva arrivare sino a lui. Lo amavo e lo ammiravo, rappresentava per me l’immagine del vero uomo e, Dio mio, come mi sarei attaccato appassionatamente a lui se non avessi sentito continuamente le sue mani che mi respingevano! Però, quando lo voleva, era capace quasi in un batter d’occhio, con una parola, con un gesto, di suscitare in me un’illimitata fiducia nei suoi confronti. Il mio animo si apriva, chiacchieravo con lui come con un amico ragionevole, con un istitutore intelligente … Poi, improvvisamente, mi lasciava e di nuovo la sua mano – con dolcezza e tenerezza – mi allontanava».

Chi parla ricorda se stesso a sedici anni e quel padre sembro essere io. «Più tardi, riflettendo sul suo atteggiamento, giunsi alla conclusione che aveva ben altro che me e la vita familiare; amava altro e di quest’altro godeva completamente».

Neppure quando il padre “ruba” il primo amore al figlio, questi prova risentimento («anzi: ai miei occhi era come cresciuto…») e ne coglie con estremo amore la sua essenza. «S’immerse nei pensieri e chinò la testa … e allora, per la prima e forse anche per l’ultima volta, mi resi conto di quanta tenerezza e quanto dispiacere potessero esprimere i suoi tratti severi».

Quando lessi la prima volta questo lungo racconto, non avevo ancora un figlio e forse vi scrutai piuttosto il movimento insensato dell’amore, il gioco involontariamente crudele di Zinaida, il rozzo e violento impulso della gelosia di Belovzorov, la perfida e cinica competizione di Malevskij, il vuoto narcisismo di Majdanov o infine la lucida e disincantata filosofia di vita di Lušin. Allora ero stretto nelle spire di una gelosia furente, mentre l’amore con Anna si stava distruggendo. Ma ora che non si ricorda più niente di quel dolore, rimane solo il padre che appare nella casa della principessa come un falco, ladro d’amore nella notte. Mentre tutti stanno troppo dinanzi o troppo dentro il fuoco della passione dell’amore, solo lui sa parlare al figlio parlando a se stesso. «Prendi quello che puoi ma non lasciarti trascinare; essere indipendenti, ecco il gioco della vita».

 

4 maggio

Nel tardo pomeriggio risuona lontano il monotono cucù del Cuculo (Cuculus canorus). È ormai una rara esperienza e da tempo non lo sentivo così preciso, così repentino. Uccello misterioso per eccellenza, solitario, improvviso come lo sparviero a cui fu associato nell’antichità, non appena è comparso o se ne è udito il bisillabo cantico sembra non esserci più. Anni fa, un primo di maggio, il suo canto accompagnò alla distanza felicemente una lunga camminata sui monti del Chianti fatta con R.. Ancora anni prima, quando feci visita a due amici nel Mugello in un incontro impresso nella mia memoria, ebbi occasione di sorprenderne uno da una distanza relativamente modesta: l’uccello parve contrariato nel suo timore. Considero la sua presenza, percepita o rilevata che sia, sempre sinonimo di scoperta felice e stupore propizio, a dispetto di una certa tradizione che ne fa invece un uccello negativo, a causa del suo parassitario comportamento riproduttivo così particolare che si presta ad uno stupido e piccolo moralismo. Ritorna allora perfetta l’immagine del Pascoli: «Fantasma tu giungi, / tu parti mistero. / … Quest’anno … oh quest’anno / la gioia ven teco; / già t’odo cantare / cu … cu».


La lettura di Turgenev mi fa riprendere alcuni libri in mano: Saggi in forma di ballate di Ripellino, Russia, follia e poesia di Jakobson e La danza di Nataša di Orlando Figes. Nel Ritratto di Anna Achmatova di Natan Al’tman rivedo improvvisamente qualcosa di J., sebbene molte altre volte questo dipinto mi sia capitato sotto gli occhi. Certamente l’ideale (il quadro) è come ripreso in un tempo lussuosamente a venire o mai più ripetibile: quello scialle oro, lo sguardo triste ma forte, la perfetta mano e l’asse che sostiene piedi così nobili. Tutto questo manca al mio ricordo di J., allora più triste e impaurita, meno leggera e aristocraticamente libera.

 

5 maggio

«La comparsa della volgarità è spesso utile, nella vita; allenta le corde troppo tese, tempera l’orgoglio e la presunzione, ricordando quanto essi le siano parenti». (Ivan Turgenev)

 

 

Costretto dalla pioggia intermittente e dal sonno pomeridiano che mi opprime in una nausea soporifera, guardo nella mia mente l’immagine austera e schiva dell’Achmatova. Porto dentro di me questa icona. «Ah! come amo questa creatura vuota!».

La primavera si risolve in una continua pioggia che deprime l’animo e il lavoro. S’insinua il timore inutile nonché scontato di non giungere da nessuna parte. Il lavoro d’altronde è una lotta invincibile contro la forza anarchica e sorda della Natura: l’ulivo senza l’uomo sarebbe un grosso e disordinato cespuglio.

 

 

10 maggio

I Bellini erano una famiglia dominata dalle donne. Il figlio Simone, ultimogenito, era mio coetaneo, e con lui giocavo nell’altalena che correva parallela al muro di separazione del giardino dal mondo che se ne stava là fuori. In quell’altalena ho conosciuto per la prima volta la sensazione del vuoto, l’essere lanciati fuori da sé e il movimento di ritorno che non vede, lo sguardo dall’alto del massicciato che attrae e il sentirsi forza che richiede all’infinito una nuova spinta. Simone era timido come tutti gli uomini della famiglia – o per lo meno così apparivano a me, forse anche a causa di un’insolita minore deferenza da parte di mio babbo, che mi li faceva apparire come non particolarmente benestanti. Vi era infatti una certa trasandatezza e un pudore così eccessivo che né lo chignon della madre né il panciotto del padre riuscivano a trasmettere agli altri la raffinatezza e a loro stessi la consapevolezza dell’agio.

 

 

Durante la festa del Corpus Domini si addobbavano le strade antistanti le case con scritte devote e figure ripiene di petali di rosa e ginestra per accogliere la processione che dalla chiesa giungeva tra canti e incenso proprio nella cappella privata della Villa dei Bellini. Vi era un’atmosfera insieme magica e putrescente. La volatilità e la breve vita dei disegni ricoperti di farina bagnata costringeva a preparare le figure poco prima la funzione religiosa, nel pomeriggio caldo e lussureggiante del giugno, perché i fiori sembrassero ancora palpitanti e rigogliosi. Per alcuni giorni sarebbe rimasto sull’asfalto la traccia di un cerchio bianco slabbrato di «un’ostia divina» o i lucenti raggi di un calice dorato. Il nome popolare del fiore della ginestra, il “maggio”, trasformava la festa nella “Maggiolata”. Usciti di chiesa, con la curiosità di misurare la maestria e i colori dei disegni altrui, si camminava nel manto odoroso e nauseabondo, pestando i petali con un misto di riguardo e di trasgressivo piacere. Quando si giungeva alla Villa dei Bellini e si varcava il grande cancello di ferro finalmente aperto al vento estraneo dei paesani, iniziava a suonare una campanella che in alto sul tetto sovrastava il piazzale.
Fu un anno, quando i fedeli si erano già dispersi di fronte all’entrata della cappella troppo piccola per accogliere tutti, che la campana all’improvviso si staccò dal campanile a vela e cadde rovinosamente nello spiazzo tra le urla degli scampati impauriti e le sciagurate risa dei più distanti. Fortunatamente cadde in un punto vuoto senza conseguenze, mentre subito comparve il volto sudato e esterrefatto del padre di Simone, costretto per una volta a uscire dal suo timido ritrarsi per dispensare scuse e borbottii.

 

 

La visita alla cappella era il momento più importante della funzione e portava con sé sempre una patina di religiosità bislacca impareggiabile. Ci sentivamo tutti ospiti in quello spazio insolito e proibito per il resto dell’anno, fermo ad un tempo ancor più antico di quanto il cadente e stucchevole altare faceva credere. Come chierichetto avevo il privilegio di entrare nel limitare più estremo del rito religioso, oltre il quale stava la vita della famiglia dei Bellini, i segreti delle stanze inaccessibili e di quella lapide in terra con inciso il nome di un Tito B. vissuto chissà quando. La breve cerimonia doveva consistere nell’esposizione di un ostensorio dorato e nella recitazione di qualche preghiera speciale. Intanto dal lato collegato alle segrete stanze da un’angusta scala, una piccola porta se ne stava aperta ma impedita dal muro di difesa delle donne della Villa che vi si addossavano. In ginocchio sulla dura pietra dell’altare, spiavo quel quadro d’altri tempi: i volti rotondi della grande madre, gli occhiali legati alle stanghe della zia zitella, le gonne a quadretti della brutta figlia, e lo zio di Simone che saliva le scale di soppiatto e scompariva nel nulla, lui, anticlericale e per un giorno straniero.

 

11 maggio

La Achmatova mi aveva pensato e nel suo messaggio aveva inviato le immagini di cieli gioiosi con la musica che aveva fatto da colonna sonora ad una buia serata sul suo rosso divano. Nel messaggio rimane ancora un fondale da decifrare per i suoni che ancora uniscono e le parole che al contrario cancellano. Sono subito caduto in uno stato di eccitazione emotiva. Rientrato in casa, avevo fatto una fantasia sulla mia morte e sul mio funerale e ora non capivo che relazione ci fosse tra le due cose. Perché vi ho voluto vedere una mano protendersi verso di me? Sarà stata toccata dall’ombra nascosta che io avevo lasciato? Forse il suo era semplicemente un ricordare, un rito nordico che si pratica per mantenere i contatti. Dentro di me le ho chiesto di accettare una rinnovata relazione sulla base del tempo dilatato e della più completa libertà l’uno dall’altro, mentre ho sentito di essere di nuovo riemerso, come se un sole natale avesse riattivato energie spente. È stato un compleanno di riapertura.

 

13 maggio

 

 

Tristezza di queste mie mani / troppo pesanti / per non aprire piaghe, / troppo leggere / per lasciare un’impronta – // tristezza di questa mia bocca / che dice le stesse / parole tue / – altre cose intendendo – / e questo è il modo / della più disperata / lontananza. (Antonia Pozzi, Sfiducia, 16 ottobre 1933)

Erano tre scalini a portare dal piccolo giardino sotto la maestosa magnolia al piano sottostante adibito a orto. La vasca allora mi sembrava grande, profonda e pericolosa, accanto al pozzo da cui cadeva la mezzina di rame, giù nell’oscurità del fondo dove immaginavo animali mostruosi aspettare che qualche disattento malcapitato cadesse nelle acque limpide e fresche. C’era un nespolo, i cui frutti, già allora insoliti, pochi di noi ragazzi provavano a cogliere. A me piaceva la sensazione di leggera increspatura della buccia di un sorbo e il suo morbido nocciolo marrone che più volte girava in bocca prima di essere scagliato o fatto scivolare tra le dita: si temeva che il bianco interno fosse stato avvelenato per punire i furtivi ladri. Quello spazio che oggi rivedo sembra essersi ridotto e ritirato addosso a se stesso, mentre il ricordo vaga e si perde nel disadorno e inospitale spiazzo erboso, tra un susino selvatico, un melo avvinghiato dall’edera crudele e un triste carrubo dalle implacabili spine della corona del Cristo. Ora non paiono più tre scalini e il tempo ha raccolto detriti di terra mentre tutto il giardino sembra sollevarsi verso il pericolante muro di pietra. Poco o niente corrisponde allo spazio magico e inaccessibile, che in autunno, quando i proprietari tornavano al letargo della città, diveniva luogo di rapinosi sospiri e noi scavalcavamo il fragile e ombroso muretto. Forse è rimasto solo il profondo e scuro odore del verde umido, dell’ombra terrosa, della lucida foglia di magnolia e del suo inebriante fiore, misterioso e bianco, troppo forte per essere respirato e troppo prezioso per essere colto. Ripenso ai Bellini, forse nelle notti di estate uscivano dalla casa e si concedevano a quel buio totale e a quel profumo brumoso.

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