Maurice Blanchot – Prefazione a «Finzioni» di Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

… se il mondo è un libro, ogni libro è il mondo, e da questa innocente tautologia nascono temibili conseguenze

Maurice Blanchot

L’Infinito letterario (1)

Borges, parlando dell’infinito, dice che questa idea corrompe le altre. Michaux evoca l’infinito, nemico dell’uomo, e dice della mescalina che « rifiuta il movimento del finito »: Infinivertie, elle détranquillise

Sospetto Borges d’aver trovato l’infinito nella letteratura. Non voglio insinuare che ne abbia solo una conoscenza tranquilla, attinta dalle opere letterarie, intendo dire che l’esperienza della letteratura è, forse, fondamentalmente affine ai paradossi e ai sofismi di ciò che Hegel, per escluderlo, chiamava il cattivo infinito. 

La verità della letteratura risiederebbe nell’errore dell’infinito. Il mondo in cui viviamo, quale noi lo viviamo, è per fortuna limitato. Bastano pochi passi per uscire dalla nostra camera, pochi anni per uscire dalla nostra vita. Ma supponiamo che in questo spazio angusto, d’un tratto buio, d’un tratto ciechi, noi ci smarriamo. Supponiamo che il deserto geografico diventi il deserto biblico: non ci vogliono più quattro passi, non undici giorni per attraversarlo, ma il tempo di due generazioni, ma tutta la storia di tutta l’umanità, e fors’anche di più. Per l’uomo misurato e misuratore, camera, deserto e mondo, sono luoghi rigorosamente determinati. Per l’uomo desertico e labirintico, votato all’errore di un passo necessariamente un po’ più lungo della sua vita, lo stesso spazio sarà veramente infinito, anche se egli sa che non lo è, tanto più anzi. 

Il senso del divenire. L’errore, il fatto di essere in cammino senza potersi mai fermare, mutano il finito in infinito. Si aggiunga questa peculiarità, che dal finito, sebbene conchiuso, si può sempre sperare d’uscire, mentre la vastità infinita è prigione, perché senza uscita. Così ogni luogo senza nessuna uscita diventa infinito. Il luogo dove ci smarriamo ignora la linea retta; non ci si sposta da un punto all’altro; non si parte di qui per andar là; nessun punto di partenza e nessun inizio al cammino. Prima di cominciare, già si ricomincia; non si è ancora finito che già si ripete, e questa assurdità di ritornare senza essersi mai mossi, o di cominciare col ricominciare, è il segreto della « cattiva » eternità, corrispondente alla « cattiva » infinità (e forse in entrambe è nascosto il senso del divenire). 

Borges, uomo essenzialmente letterario (cioè sempre pronto a capire secondo il modo di comprensione proprio della letteratura), è alle prese con la cattiva eternità e la cattiva infinità, le sole, forse, che ci è dato sperimentare, fino a quel rovesciamento glorioso che si chiama estasi. Il libro in linea di massima è il mondo per lui, e il mondo è un libro. Questo dovrebbe tranquillizzarlo sul senso dell’universo, perché della ragione dell’universo si può dubitare, ma il libro che è opera nostra, in special modo i libri di invenzione costruiti con abilità, come problemi totalmente indecifrabili che richiedono soluzioni totalmente chiarificatrici, quali i romanzi polizieschi, li sappiamo penetrati d’intelligenza e animati dal potere ordinatore della mente. Ma se il mondo è un libro, ogni libro è il mondo, e da questa innocente tautologia nascono temibili conseguenze. 

Anzitutto, viene a mancare ogni termine di riferimento. Il mondo e il libro si rimandano eternamente e infinitamente le loro immagini riflesse. Questo potere indefinito di riverberazione, questo scintillante e illimitato moltiplicarsi che è il labirinto della luce e che peraltro non è un nulla, sarà allora tutto ciò che troveremo, vertiginosamente, in fondo al nostro desiderio di capire. 

E ancora, se il libro è la possibilità del mondo, dobbiamo anche dedurne che è proprio dell’opera nel mondo, non solo il potere di fare, ma quel grande potere di fingere, di falsificare e d’ingannare di cui ogni opera di finzione è il prodotto, tanto più evidente quanto questo potere è in essa dissimulato. Finzioni, Artifici, rischiano di essere i nomi più onesti che alla letteratura possano essere attribuiti, e biasimare Borges perché scrive dei racconti fin troppo conformi a questi titoli, significherebbe rimproverargli quell’eccesso di sincerità senza il quale la mistificazione si prende pesantemente alla lettera. (Schopenhauer, Valéry sono, senza dubbio, gli astri che brillano in questo cielo senza cielo). 

Termini come trucco, falsificazione, riferiti al pensiero e alla letteratura, ci urtano. Pensiamo che un tal genere di frode è troppo semplice, pensiamo che se vi è una falsificazione universale, è comunque in nome di una verità forse inaccessibile, ma degna di venerazione, e per qualcuno di adorazione. L’ipotesi del genio maligno non ci pare la più sconfortante: un falsificatore, anche onnipotente, è sempre una solida verità che ci dispensa di andare oltre col pensiero. Borges sa che la rischiosa dignità della letteratura non consiste nel farci supporre dietro al mondo la presenza di un grande autore assorto in fantastiche mistificazioni, ma di farci provare la vicinanza di una strana potenza, neutra e impersonale. Gli piace si dica di Shakespeare: « Somigliava a tutti gli uomini, tranne nel fatto che somigliava a tutti gli uomini ». Vede in tutti gli autori un solo autore che è l’unico Carlyle, l’unico Whitman, che non è nessuno. Si riconosce in George Moor, in Joyce – potrebbe dire in Lautréamont, in Rimbaud – capaci d’incorporare nei loro libri pagine e figure d’altri, perché l’essenziale è la letteratura, non gli individui, e, nella letteratura, che essa impersonalmente sia, in ciascun libro, l’unità inesauribile di un solo libro e la ripetizione estenuata di tutti i libri. 

Borges ci propone d’immaginare uno scrittore francese contemporaneo che scriva, partendo da pensieri propri, delle pagine che riproducano testualmente due capitoli del Don Chisciotte: assurdità memorabile, non diversa da quella cui si assiste in ogni traduzione. In una traduzione noi abbiamo la stessa opera in un doppio linguaggio; nella finzione di Borges, abbiamo due opere nell’identità dello stesso linguaggio e, in questa identità che non è tale, il vertiginoso miraggio della duplicità dei possibili. Ora, di fronte a una replica perfetta, l’originale è cancellato, e perfino l’origine. Così il mondo, se si potesse esattamente tradurlo e raddoppiarlo in un libro, perderebbe ogni principio e ogni fine, per diventare quel volume sferico, finito e senza limiti, che tutti gli uomini scrivono e in cui sono scritti: non sarebbe più il mondo, ma sarebbe, sarà il mondo pervertito nella somma infinita dei suoi possibili. 

La letteratura non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita molteplicità dell’immaginario, verso ciò che è. La differenza fra reale e irreale, l’inestimabile privilegio del reale è che la realtà è meno reale, non essendo altro che irrealtà negata, dissoluta dall’energico lavoro della negazione e da quell’altra negazione che è il lavoro stesso. Proprio questo meno, sorta di scarnificazione e di assottigliamento dello spazio, ci permette di andare, con la felicità della linea retta, da un punto all’altro. Ma è il più indefinito, l’essenza dell’immaginario, a impedire sempre a K. di raggiungere il Castello, come per l’eternità ad Achille di raggiungere la tartaruga, e forse all’uomo di raggiungersi vivo in un punto che renderebbe la sua morte perfettamente umana, e pertanto invisibile. 

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(1) Questo saggio (dal titolo L’Infini littéraire : l’Aleph) è tratto da Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 116-19.

Tratto da:

Jorge Luis Borges, Finzioni , con un saggio di Maurice Blanchot ; traduzione di Franco Lucentini · Torino : Einaudi, 1967 · XV, 146 p. · Collezione Nuova Universale Einaudi ; 84 · tit. dell’opera : Ficciones · Classificazione Dewey ; 863.6 (16.) NARRATIVA SPAGNOLA. SEC. 20

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  1. “La letteratura non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita molteplicità dell’immaginario, verso ciò che è.”

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