Shemuel Josef Agnon ~ Da nemico, amico

Moshe Castel , Hallelujah, (1985), The Moshe Castel Museum of Art , oil on canvas

 

Quando arriva esco ad incontrarlo e lo prego di accomodarsi accanto a me, sulla panchina, tra gli alberi del giardino. Viene e si siede; e quando viene porta con sé il profumo dei monti e delle valli e mi fa vento come un ventaglio

 

 

 

DA NEMICO, AMICO 

Quando Talpiot non era ancora costruita, il re dei venti dominava tutta la contrada, e i suoi ministri e servi – venti forti e impetuosi – erano insediati sul monte e nella valle, sui colli e nei valloni e facevano in tutto il piacer loro, quasi fossero i soli padroni della plaga. 

Una volta capitai là: vidi che il luogo era bello e l’aria pura, il cielo d’un azzurro limpido e ampia la distesa intorno, e me ne andai in giro a mio talento. Il vento m’incontrò. – Che fai qui? – disse. – Vado a spasso – Vai a spasso? – Batté con impeto sulla mia testa e mi gettò via il cappello. Mi chinai per raccattarlo. Il vento s’ingolfò nei miei abiti, facendosi beffe di me. Ricomposi gli abiti. Tornò a investirmi e con una sghignazzata mi buttò a terra. A stento mi levai in piedi. Allora mi percosse urlando: – Vattene, vattene via. 

Compresi di non poter contendere con chi era più forte di me e me ne andai. 

Tornai in città e mi rifugiai in casa. Ma tosto, preso da irrequietudine, uscii di nuovo. Consapevole o no, le gambe mi portarono a Talpiot. Ricordando ciò che il vento mi aveva fatto, presi tela e paletti e piantai una tenda, a riparo dal turbine e dalla bufera. 

Una notte ero là, quando a un tratto il lume si spense. Uscii a vedere chi avesse spento il mio lume e trovai – ritto là fuori – il vento. – Che vuoi? – domandai. Mi rispose con un colpo forte sulla bocca e soffiandomi nelle orecchie. Rientrai nella tenda. Sradicò i paletti, strappò le corde, capovolse la tenda e ne disperse i teli. Anche a me non risparmiò i colpi e mi fece quasi stramazzare. 

Vidi che non potevo nulla contro di lui. Mi rimisi la strada fra le gambe e tornai in città. 

Tornai in città a vivere in mezzo ai muri. Mi riprese l’irrequietudine, il desiderio di andar via, a respirare aria buona. Poiché un’aria come quella di Talpiot non si trova in tutto il paese, andai a Talpiot. E per difendermi dall’imperversare dei venti presi meco delle assi e rizzai un baracchino. Credevo di essermi assicurata la quiete, ma il vento non la pensava così. Calava appena la sera, che già dava colpi sul tetto e scuoteva le pareti. In una notte si portò via il baracchino, tutto intero. 

Il vento si portò via il baracchino e rimasi senza riparo. Mi rimisi la strada fra le gambe e tornai in città. 

Quel che mi era accaduto una volta, due volte, mi accadde la terza. Appena tornato, la dimora in città mi venne in uggia. E il cuore, oh, il cuore mi attirava verso i luoghi da cui avevo dovuto fuggire. 

“Non vedi?” dissi al mio cuore. “Non vedi che ci è impossibile tornare là donde mi hanno cacciato? L’impossibile non si può fare.” Ma il cuore era d’altro avviso. Avevo un bel dire mille volte: « È impossibile ». Il cuore mi diceva mille e mille volte: « È possibile, e come! ». 

Portai legname e pietre e mi costruii una casa. 

Non sta a me lodare la mia casa. Se è piccola, non mi vergogno che ne esistano di più grandi e di più belle. È piccola, casa mia, ma c’è spazio sufficiente per una persona come me, che non aspira a grandezze. 

Il vento vide che mi ero costruita una casa. Venne e domandò: – Che è questo? – Una casa – risposi. Rise e disse: – Sulla tua vita, non ho mai visto nessuna cosa più buffa di questa che chiami casa. 

Risi a mia volta. – Quel che non hai visto finora, lo vedi adesso – dissi. – Può chiamarsi casa? – osservò ridacchiando. – Una casa è una casa. – risposi ridendo anch’io. – Voglio esaminarla – ghignò il vento. 

Allungò la mano e provò la porta. La porta cadde di schianto. Allungò la mano e provò le finestre. Un altro schianto e le finestre caddero. Infine si sollevò sul tetto. Era appena salito, che già il tetto crollava. 

– Dov’è la casa che ti sei costruita? –  sogghignò il vento. 

Anch’io mi domandavo dove fosse la mia casa; ma non ridevo. 

Le altre volte, quando il vento mi cacciava via, tornavo in città. Poi accaddero fatti che non mi consentirono di tornare. Stavo all’addiaccio, incerto sul da farsi. Tornare in città era impossibile, per via dei fatti accaduti; tornare a Talpiot impossibile, perché il vento mi cacciava via. Rizzare una tenda o una capanna? Non sarebbero rimaste in piedi. Costruirmi una casetta? Anche quella non aveva resistito al vento. Ma forse non aveva resistito perché era piccola? Forse, se fosse stata grande e solida, sarebbe rimasta in piedi? Presi del legname robusto, travi e grosse pietre, argilla e calce e mi procurai buoni operai, che giorno e notte sorvegliavo. Inoltre ebbi l’accortezza di scavare fondamenta più profonde. La casa era finita e si reggeva saldamente. Quando la casa fu in piedi, sopravvenne il vento e batté sulle persiane. – Chi batte alla mia finestra? – domandai. – Un vicino – rispose con un lieve riso. – Che cosa viene a chiedere, un vicino, in una notte così turbinosa? – È un vicino che viene a rallegrarsi per l’inaugurazione della casa. – Ma è forse uso dissi che i vicini entrino dalla finestra come ladri? 

Allora venne a battere alla porta. – Chi batte alla mia porta? – domandai. – Io, il tuo vicino – rispose il vento. – Se sei mio vicino – dissi – vieni, entra! – Ma la porta è chiusa. – Se è chiusa, è segno che l’ho chiusa. – Aprila, dunque – ribatté il vento. – Ho paura del freddo – risposi. – Aspetta che sorga il sole e ti aprirò. 

Quando al levar del sole andai ad aprire, non lo trovai. Stando davanti alla mia casa, vidi che intorno tutto era deserto. Non un albero, non un giardino, solo terra e pietre. Dissi tra me: “Mi pianterò un giardino”. 

Diedi di piglio alla marra e cominciai a zappare il terreno. Quando fu dissodato piantai degli arboscelli. Vennero le piogge ad annaffiarli, venne la rugiada a farli fiorire, venne il sole a farli crescere. Non passò molto che gli arboscelli divennero alberi frondosi. 

Misi insieme una panchina e sedetti all’ombra degli alberi. 

Una notte il vento ricomparve e percosse gli alberi. Che accadde? Gli alberi ricambiarono i colpi. Il vento tornò a percuotere, e gli alberi a dar colpi al vento. Perse coraggio, il vento; si volse e se ne andò. 

Da quella notte ha abbassato le arie e si presenta con modi cortesi. Poiché si comporta cortesemente, io faccio altrettanto. Quando arriva esco ad incontrarlo e lo prego di accomodarsi accanto a me, sulla panchina, tra gli alberi del giardino. Viene e si siede; e quando viene porta con sé il profumo dei monti e delle valli e mi fa vento come un ventaglio. E siccome si mostra ravveduto e compunto, io non gli rammento i suoi trascorsi. Quando si congeda e se ne va, lo prego di ritornare, com’è uso con un buon vicino. E in verità siamo buoni vicini; io gli voglio un bene dell’anima, e forse anche lui me ne vuole. 

 

¤

 

Tratto da:

Shemuel Yosef Agnon , Racconti di Gerusalemme ; traduzione dall’originale ebraico di Elena Monselise Ottolenghi · titolo originale del racconto : ME-OJÈV LE-OHÈV [Tel Aviv 1941] ; Collezione : Medusa , 86 · 404 p. · Milano: A. Mondadori, 1964 · Classificazione Dewey : 892.435 (20.) NARRATIVA EBRAICA. 1885-1947

Lascia un commento